UNA CORSA PER L’INCLUSIONE SOCIALE
“Lo sport ha lo straordinario potere di incidere profondamente sui cambiamenti delle persone e di tutta la società. Per questo vogliamo ispirarci alla positività contagiosa di quest’esperienza per farne un veicolo di educazione, inclusione sociale e benessere di tutta la Comunità”, con queste parole Alessandro Tappa ci presenta l’operato della onlus Sport Senza Frontiere che da 3 anni si batte per rendere l’attività sportiva accessibile a chi più ne ha bisogno.
Sport e inclusione sociale: come si legano queste due tematiche?
Da sempre è la natura stessa dell’attività sportiva a tramutare in concretezza quella che dovrebbe essere una politica sociale. Lo sport ha, infatti, lo straordinario potere, attraverso le sue regole e il coinvolgimento che genera, di abbattere le barriere che regnano nella nostra società. Nell’allenarsi insieme, in un campo da tennis come in una piscina, ogni persona diventa uguale all’altra e non si riconoscono più le differenze e le realtà di provenienza: questo è la forza intrinseca dello sport, straordinario veicolo di valori, esempi e regole che, se sfruttato correttamente, può incidere profondamente sui cambiamenti delle persone e della società. E subito mi viene in mente un esempio su tutti, quello del presidente Nelson Mandela, che ha saputo utilizzare le potenzialità della disciplina del rugby per unificare una nazione sconvolta e dilaniata da quasi cinquant’anni di apartheid.
Quali sono le fasce sociali oggi più a rischio di esclusione?
In questo momento ci occupiamo soprattutto di giovani e bambini, fasce di minori legate al fenomeno delle immigrazioni che vivono in condizioni a rischio nella periferia di Roma.
Ma seguiamo anche tanti bambini e giovani adulti italiani che, con il fenomeno della crisi, hanno visto le possibilità delle loro famiglie di incentivare la propria attività sportiva azzerarsi.
Che cosa si può fare per loro? Come opera sul territorio Sport Senza Frontiere?
A livello generale direi che si possono innovare le politiche del welfare. I servizi sociali fanno dei miracoli, pur essendo molto spesso vincolati alla disponibilità di risorse economiche ed essendo strutturati con processi che non sono più attuali. Bisognerebbe quindi rinnovare questi modelli attingendo non solo alla forza contagiosa dello sport ma a quella delle arti creative, della musica e della pittura. Nel particolare, noi di Sport Senza frontiere Onlus progettiamo e organizziamo percorsi sportivi gratuiti per bambini e adolescenti svantaggiati e in situazioni di marginalità sotto la guida di operatori professionali e in collaborazione con una rete solidale di partner e associazioni sportive. In pratica, offriamo ai nostri ragazzi la possibilità di fare attività sportive qualificate, seguite e gratuite. I bambini che intercettiamo vengono inseriti in corsi già esistenti grazie alla disponibilità di associazioni sportive affiliate alla Onlus che li ospitano con il supporto di risorse specializzate come piscologi, educatori, mediatori culturali. Perché lo sport è uno strumento dalle grandi potenzialità ma occorre saper gestire il processo di integrazione professionalmente se non si vuole incorrere in esperienze fallimentari.
Che cosa intende con questo?
Il disagio sociale va rispettato, ascoltato e capito: noi ci occupiamo di parlare con le famiglie, fornire supporto psicologico ma anche pratico nell’accompagnare i bambini agli appuntamenti sportivi, nel parlare con le associazioni, gli allenatori, le altre famiglie “normali”, nel provvedere a materiale, abbigliamento sportivo e assistenza sanitaria per il rilascio dei certificati di idoneità all’attività sportiva. In particolare i mediatori culturali, che conoscono le culture di provenienza dei nostri ragazzi e sono in grado di raccontarcele, fanno da trait d’union tra le famiglie italiane e le Comunità straniere. Infine, attraverso un protocollo di monitoraggio sviluppato con le università, analizziamo con periodicità il percorso di ogni singolo bambino nel primo anno di inserimento e in quelli successivi: non si tratta, infatti, di un’iniziativa episodica ma di un piano con durata pluriennale perché il riscatto dalla condizione di disagio è un risultato che si può ottenere solo con il tempo. Ad oggi la Onlus conta 30 società sportive nella propria rete e 141 bambini beneficiari di ben 15 diverse nazionalità.
Come intercettate le famiglie?
Il nostro primo compagno di viaggio è stata la Comunità di Sant’Egidio che ci ha segnalato le famiglie da sostenere, poi si sono aggiunte le indicazioni delle scuole del territorio e anche quelle dei servizi sociali delle istituzioni locali che sempre di più si stanno accorgendo dell’importanza di questi interventi.
Quando nasce la Onlus, in seguito a quali eventi e con quali valori?
L’iniziativa parte da una piccola società sportiva di cui sono fondatore, l’Athlion Roma Pentathlon Moderno, i cui operatori insieme al sottoscritto avevano come obiettivo quello di veicolare messaggi importanti attraverso lo sport per aiutare i ragazzi a crescere. È quindi dal patrimonio operativo e culturale di questa piccola realtà che prende vita un progetto pilota e, a due anni dalla sua partenza, arriva anche la Onlus. L’idea nasce dalla donazione da parte delle agenzie Reuters e Contrasto di foto a tema sportivo che abbiamo deciso di mettere all’asta per raccogliere le risorse economiche necessarie a sostenere il progetto: organizzare dei corsi gratuiti per 7 bambini di una periferia di Roma all’interno di un’iniziativa che si chiamava “la Città di Sport Senza Frontiere”. Partiamo con il progetto e dopo solo un anno i bambini diventano 14. È allora che, spinti dall’entusiasmo e dai risultati ottenuti, abbiamo fatto una scelta: uscire dall’episodicità e fondare una Onlus per portare avanti un programma. Oggi siamo al 3° anno consecutivo di attività e la Città di Sport Senza Frontiere è attiva a Roma, Terni, Ferentino e Milano.
Mondo istituzionale, privato, dello sport: che accoglienza avete ricevuto?
Nell’ultimo anno le istituzioni hanno iniziato ad apprezzare molto di più il nostro lavoro e il tentativo innovativo di scavalcare l’episodicità per farne un progetto organizzato e continuativo. Iniziamo ad avere i primi riscontri: abbiamo siglato 2 protocolli di intesa con 2 municipi della provincia di Roma e un protocollo di intesa base con il Comune di Roma, collaborazioni che rappresentano un riconoscimento per il nostro modello di intervento che siamo più che mai decisi a mettere a disposizione delle istituzioni. Di recente abbiamo ricevuto anche un riconoscimento dal C.O.N.I. nazionale e regionale per essere una best practice efficace e innovativa nell’ambito delle azioni per l’integrazione sociale attraverso la pratica sportiva. In ambito privato riscontriamo ancora qualche difficoltà per il periodo drammatico che stanno vivendo le nostre imprese. Eppure abbiamo avuto qualche azienda che ci è stata vicina realizzando progetti di sensibilizzazione dei propri dipendenti, incoraggiandoli a partecipare ai momenti sportivi organizzati dalla nostra associazione perché è solo partecipando e coinvolgendosi in un progetto che se ne può capire davvero l’importanza. Per quanto riguarda il mondo dello sport c’è stata grande disponibilità, e oltre 38 associazioni sportive nell’area di Roma che hanno collaborato con noi finora.
Avete avuto dei momenti bui? Qualche difficoltà?
Non è sempre facile gestire l’inserimento di bambini stranieri. In alcuni percorsi abbiamo incontrato delle resistenze o delle rigidità che però la magia di questo progetto ha saputo superare. Ci sono storie di battaglie vinte e di diffidenze abbattute che mi piace raccontare, come quella del primo inserimento, 3 anni fa, di 7 bambini Rom all’interno di una società di rugby di una periferia a Nord di Roma con un tessuto economico tutto sommato ricco. In questo caso l’inserimento dei bambini ha creato episodi di disorientamento in alcune famiglie italiane che si sono rivolte all’associazione sportiva per chiedere spiegazioni. E qui la differenza l’hanno fatta un gruppo di allenatori illuminati insieme alla nostra mediatrice culturale e ad alcuni genitori alleati che hanno facilitato il passaggio da un’iniziale diffidenza ad un clima di integrazione ed entusiasmo generale. Oggi siamo al 3° anno consecutivo di questo primo gruppetto di bambini ed in particolare uno di loro, Sasho, il più timido e chiuso, è diventato la mascotte della squadra ed è stato recentemente riconosciuto con un premio come giocatore migliore dell’anno, andando persino in Francia a fare una trasferta internazionale con il supporto di Sport Senza Frontiere ma anche da gli stessi genitori che avevano mostrato iniziale diffidenza. In Francia Sasho ha visto per la prima volta il mare. Quando si riesce a far sorridere un bambino per una cosa del genere si può avere davvero la speranza di cambiargli la vita.
Ci racconta alcune vostre iniziative?
Tra quelle del passato, molto importante è stato il progetto realizzato in collaborazione con la Fondazione Vodafone Italia per l’inserimento gratuito di 100 bambini e adolescenti in corsi sportivi pluridisciplinari. Poi sicuramente il progetto “Tutti in vasca” sostenuto dall’Opera Sante de Sanctis per offrire la possibilità ad un gruppo di 30 diversamente abili di praticare lezioni di nuoto. Quest’estate ci siamo dedicati all’inserimento nei centri estivi di quei bambini che sono costretti a rimanere in città grazie ai posti offerti gratuitamente dalle associazioni della rete. Per il futuro stiamo lavorando al progetto “Sport e benessere”, finalizzato all’inclusione sociale di 600 minori in condizioni di disagio socio economico e psicofisico e tutela della salute attraverso screening e monitoraggi sanitari. Un progetto che sarà attivato nelle città di Roma, Napoli e Milano con la collaborazione di una rete di medici specialisti volontari, di strutture presenti sul territorio e delle associazioni Fondazione del Cuore Onlus e Fondazione con il Sud.
Come si può migliorare la responsabilità sociale collettiva?
Con gli esempi. E promuovendo progetti emblematici che siano facili da capire e che siano coinvolgenti, facendo vivere l’intervento di solidarietà a tutta la Comunità. La trasmissione positiva di questi programmi può diventare virale ma chi progetta gli interventi deve essere in grado di essere innovativo, creativo e coinvolgente. Occorre quindi innovare anche il modo di lavorare nel sociale, abbandonando i vecchi schemi e abbracciandone di nuovi. Un altro dei nostri ultimi risultati? Di recente come autisti dei pullmini con cui accompagniamo i nostri bambini abbiamo assunto dei genitori Rom. Insomma, un circuito virtuoso che funziona e che corre verso un’integrazione a tutto tondo!