Un bostoniano, la figlia del senatore e Pokémon Go

Un bostoniano, la figlia del senatore e Pokémon Go

di Stefano Moriggi
Ovvero, come le tecnologie ci impongono di ridiscutere sempre e di nuovo il confine tra “pubblico” e “privato”

“Sussurrare dentro l’armadio sarà come lanciare proclami dai tetti” – così suonava la (pre)visione apocalittica dell’avvocato Samuel D. Warren. Immaginando un futuro prossimo in cui “la frenesia e la complessità della vita che accompagnano il progredire della civiltà” renderanno sempre più necessario un certo ritiro dal mondo”, il legale di Boston non aveva dubbi nel diagnosticare i sintomi di un’epoca, ormai incombente, in cui le “iniziative moderne” e le “invenzioni”, tramite le “invasioni della vita privata”, avrebbero provocato “danni e sofferenze psicologiche di gran lunga peggiori di quelle che possono essere inflitte per mezzo di un’aggressione fisica”.

Tali preoccupate osservazioni, messe per iscritto insieme all’amico e collega Louis Brandeis in un articolo dal titolo “The Right to Privacy” (e pubblicate sulla prestigiosa Harvard Law Review in data 15 dicembre 1890), sono ormai convenzionalmente considerate l’atto di nascita del dibattito sul cosiddetto diritto “di essere lasciati in pace” (“to be let alone”). Ovvero, della rivendicazione (in termini giuridici) di quello spazio di libertà inviolabile che il pensatore americano Ralph Waldo Emerson (1803-1882) aveva già identificato nel concetto filosofico di “solitudine”.

Ma, a ben vedere, non furono solo le riflessioni dell’intellettuale statunitense a ispirare i due rampanti e giovani legali nel voler provare a tutelare a norma di legge “il diritto alla riservatezza” dei singoli individui. Quanto piuttosto un episodio che toccò molto da vicino l’intimità di Warren e che lo fece molto ragionare su come “fotografie istantanee e iniziative giornalistiche hanno ormai invaso i sacri confini della vita privata e domestica, mentre un gran numero di congegni meccanici minaccia di realizzare – appunto – la [sopracitata] predizione secondo cui sussurrare dentro l’armadio sarà come lanciare proclami dai tetti”.

Accadde infatti che, nel dicembre 1882, tornato a Washington per le festività natalizie, Samuel Warren si unì in matrimonio con la fidanzata, Miss Mabel Bayard. Un evento che non sfuggì all’occhio sempre più indiscreto della stampa. D’altra parte, come sarebbe potuta passare inosservata l’unione, celebrata nella chiesa dell’Ascensione, tra uno sconosciuto rampollo di una benestante famiglia di imprenditori bostoniani e la figlia del senatore Thomas F. Bayard?

Un giovane insignificante – così lo etichettò il Washington Post – riusciva a impalmare nientemeno che la figlia di un esponente di spicco del Partito Democratico già candidato alla Presidenza degli Stati Uniti – e destinato, di lì a poco, a essere nominato addirittura segretario di Stato.
Da quel momento la vita (privata) dei due sposi e delle rispettive famiglie sarebbe stata sempre più oggetto delle attenzioni morbose e invadenti dei mezzi di comunicazione. Dal chiacchierato acquisto da parte di Mrs. Warren di un quadro del ritrattista George Fuller per una cifra di 3.500 dollari fino al discusso secondo matrimonio del senatore Bayard che, rimasto vedovo, nel 1889 si risposò con una donna di vent’anni più giovane. La “solitudine” (e dunque la libertà) teorizzata da Emerson, per i protagonisti di questa storia americana, pareva ormai un miraggio.

E fu così, come si accennava, che nel 1890 Warren e Brandeis concepirono l’articolo che, per la prima volta, inquadrava in termini dottrinali un problema che sembrava avere più storia che soluzioni. Se, infatti, il pettegolezzo – come anche il gossip – è una consuetudine le cui origini si perdono nella notte dei tempi; è stata piuttosto la violenta e dirompente irruzione nelle vite dei cittadini (più o meno noti) resa possibile da quei “moderni congegni” a trasformare l’irritazione di un avvocato balzato (suo malgrado) agli “onori” della cronaca, nell’inedita sfida di un’epoca intera.

Per dirla con il filosofo Friedrich Engels era in corso un tipico fenomeno di “conversione della quantità in qualità”. Ovvero, l’incremento (in termini quantitativi) del potere dei mezzi comunicazione aveva raggiunto un livello tale da ridefinire (in termini qualitativi) il contesto in cui riflettere sulla distinzione tra pubblico e privato. Da qui l’urgenza da parte di Warren e di Brandeis di ritagliare in una ontologia sociale mutata da una comunicazione sempre aumentata dalla tecnologica norme e regole che avrebbero al contempo tutelato – ma ancor prima descritto – lo spazio e il significato della “privatezza”.

Non è questa la sede per entrare nello specifico giuridico dei fatti in questione. Quanto piuttosto di sottolineare come la soglia che idealmente separa, qualificandole, la sfera della vita pubblica da quella della vita privata sia da ripensare sempre e di nuovo, tenendo conto di come e quanto le tecnologie ridefiniscano nel corso della storia i modi e i tempi delle relazioni (e delle comunicazioni) interpersonali.

Di recente, nel suo Mobilitazione totale (Einaudi, 2016), Maurizio Ferraris notava come la diffusione capillare del web e dei suoi dispositivi abbia dato origine a quella che il filosofo torinese ha battezzato “età della registrazione”. Se, infatti, spiega Ferraris in questa direzione, sino a metà del secolo scorso abbiamo vissuto l’“epoca della produzione” (in cui, appunto, si producevano artefatti) e a questa sarebbe seguita quella della “comunicazione” (che si sostanzia in una articolata trasmissione “degli ordini”); oggi tutto ciò che viene prodotto e trasmesso “è un documento registrato, destinato a rimanere lì dove si trova e inoltre a circolare per un tempo e uno spazio indefiniti”. Nell’epoca del web ogni cosa – e ogni individuo – lascia traccia indelebile di sé. Il che ci impone una riflessione che va oltre la definizione di un confine, quello tra pubblico e privato.

Scrive ancora Ferraris, “ogni contatto sul web produce automaticamente informazioni e documenti sugli utenti”. E quella che si viene creando è pertanto una “indistinzione tra sociale e mediale, tra privato e lavorativo”. Ma se Ferraris ricostruisce puntualmente le tappe fondamentali di questo processo ripercorrendo l’evoluzione – tecnologica e culturale insieme – del telefonino (da quando era solo una “macchina per parlare” a quando è diventato soprattutto una “macchina per scrivere”); con maggiore evidenza si possono rendere palesi alcuni dei tratti distintivi della suddetta età della registrazione esaminando un fenomeno più recente che ha avuto eco e diffusione planetarie: Pokémon Go. Oggetto di critiche e anatemi da più parti, come sistematicamente accade con la comparsa di qualsiasi novità tecnologica, il gioco di Niantic solo da pochi osservatori – in, Italia, per esempio, l’antropologo Marino Niola (http://video.repubblica.it/tecno-e-scienze/pokemon-go-niola–tra-gioco-e-nostalgia-ci-riporta-dal-virtuale-al-reale/246901/247010) – ha innescato riflessioni nel merito che sottolineassero, nel bene e nel male, le potenzialità delle tecnologia di cui Pokémon Go è solo una delle prime avanguardie. Da più parti si è gridato alla pericolosità del gioco puntando l’indice con supponenza e distacco contro le orde di ragazzi (e non solo) che hanno invaso Central Park o Piazza del Popolo per catturare Pikachu e le altre creature fantastiche immaginate dalla Nintendo. Dando conto di ingorghi o di incidenti stradali provocati da giocatori scellerati, per molti commentatori si è dimostrato facile e intuitivo individuare nell’ultima frontiera del videogioco un passo ulteriore – e per alcuni decisivo – verso una innaturale e alienante dematerializzazione dell’esistenza. E non è mancato addirittura chi – nella fattispecie mons. Antonio Staglianò, vescovo di Noto – ha incaricato ben due avvocati per valutare gli estremi di una denuncia dal momento che, sostiene il presule, “c’è in campo la sicurezza sociale degli uomini e delle donne da preservare”.

A ben vedere qualcuno dovrebbe avvisare Staglianò che i suoi “colleghi” Salesiani del Collegio Maria Ausiliatrice di Bernal (Argentina), estensori di una visione meno tecnofobica e apocalittica, stanno per lanciare Don Bosco Go. In occasione del 201° anniversario della nascita del sacerdote educatore, infatti, hanno inaugurato una “caccia a santi e beati” che impegna i ragazzi durante le ore di svago (http://www.infoans.org/sezioni/notizie/item/1594-argentina-don-bosco-go-studenti-di-una-scuola-salesiana-alla-cattura-di-santi-e-beati). Ma il punto non è questo.

Che si vada a “caccia” di santa Maria Ausiliatrice o di Pikachu, ciò che, di questo gioco, meriterebbe più attenzione è il suo essere il primo esperimento di massa di realtà aumentata. Ovvero, di una nuova ontologia dalle potenzialità di sviluppo di cui, appunto, Pokémon Go (o, se si vuole, anche Don Bosco Go) rappresenta solo la punta dell’iceberg. Presto la realtà aumentata – e ben al di fuori della dimensione prettamente ludica – sarà esperienza diffusa e quotidiana. Dovremmo farci i conti, in tutti sensi. Sia imparando a orientarci in un mondo implementato di dati e informazioni che si andranno sempre più a sovrapporre ai segni e ai significati propri della cosiddetta “realtà fisica”; sia diventando consapevoli, una volta di più, che in tale contesto si tratterà di ripensare non solo cosa potrà essere inteso nei prossimi anni come “pubblico” e come “privato” – ma, ancor più radicalmente, quali saranno i confini fisici e digitali che ridisegneranno il concetto stesso di “individuo”.

Rimandando le riflessioni più filosoficamente impegnative a una delle prossime rubriche, l’ambizione di questo articolo è quanto meno quella di sollevare un problema che, come si è visto, ha una lunga storia ma che non ammette una soluzione definitiva e metastorica. La descrizione fenomenologica e la tutela normativa del “privato” si profila come un compito che, lo si è visto, non può trascurare l’evoluzione della tecnologia e dunque l’emergenza di pratiche e consuetudini sociali impensabili per altre epoche.

Nell’età della registrazione, oltre a stare attenti per non andare a sbattere contro un palo mentre si insegue Pikachu, occorre altresì diventare consapevoli che i dati sempre più numerosi a cui si potrà accedere grazie a dispositivi più o meno indossabili (wearable) costituiscono l’altra faccia delle informazioni che ciascuno inevitabilmente (ri)lascerà in rete.
Come scrive Kevin Kelly, fondatore di Wired Usa, nella sua ultima fatica “The Inevitable. Understanding. The 12 Technological Forces That Will Shape Our Future” (Viking, 2016): “Il futuro sarà un posto immateriale e creativo, dove ogni bene è un servizio e il web si estende nello spazio del pianeta e nel tempo delle nostre vite, rendendo il passato ricercabile a piacimento”.

Lungi dall’essere una (pre)visione ingenuamente ottimistica, lo scenario tratteggiato da Kelly – non meno di quello immaginato dall’avvocato Samuel D. Warren centoventisei anni prima – si sforza di far riflettere su come “ogni tecnologia risolve dei problemi ma ne crea altri mai visti prima: i successi tecnologici di ieri (ad esempio il motore a combustione) causano i problemi di oggi (il riscaldamento globale) e le soluzioni tecnologiche di oggi causeranno i problemi di domani”. Un destino cui l’uomo-artigiano, come direbbe Richard Sennet – non può sottrarsi. Ma soffermarsi sul continuo sforzo nel risolvere i problemi è solo un altro modo per richiamare l’attenzione sull’esercizio intellettuale come pratica di emancipazione individuale e di responsabilità sociale. Condividere e indagare in modo spregiudicato e critico le sfide dell’immateriale e della registrazione vorrà dire comprendere e tutelare l’individuo (pubblico e privato) che diventeremo e che ancora non conosciamo.