Trasferimento dell’azienda oltre confine
Produrre in Italia costa troppo: la pressione fiscale, che rende spesso insostenibili le spese per la manodopera ed erode anche i margini piùsottili, pesa come un macigno su molte aziende del Bel Paese. Spostarsi all’estero, dunque, significa per alcuni imprenditori ridurre i costi attraverso l’alleggerimento dell’imposizione tributaria. Ma cosa può comportare, proprio dal punto di vista della tassazione, il trasferimento all’estero di un’impresa italiana? Scopriamolo assieme.
È necessario chiarire sin dal principio quali sono i requisiti di “residenza fiscale” nel nostro ordinamento, con specifica attenzione alle imprese costituite in forma societaria. La disciplina è contenuta nell’art. 5, co. 3 e nell’art. 73, co. 3 del T.U.I.R., rispettivamente relativi a società di persone e di capitali, e per entrambe dispone che “si considerano residenti le società ed i soggetti assimilati che per la maggior parte del periodo d’imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato”. Tali criteri di localizzazione sono alternativi, pertanto è sufficiente che permanga anche uno solo dei tre requisiti affinché una società continui ad essere considerata residente nel nostro Paese, con tassazione in Italia in base al “principio di tassazione su base mondiale”. Ciò consente di comprendere che il trasferimento di un’azienda ai fini fiscali non può mai essere solo “sulla carta”, ma deve comportare inevitabilmente anche lo spostamento delle attività amministrative e produttive.
Premesse fatte, cosa accade quando un’impresa si sposta all’estero?
Il trasferimento della residenza non è un’operazione fiscalmente neutrale, bensì gli effetti sono assimilabili, pur con alcune differenze e particolarità, a quelli di una cessione d’azienda. L’art. 166 del T.U.I.R. dispone infatti che il trasferimento della residenza da parte di un soggetto che esercita un’impresa “costituisce realizzo, al valore normale, dei componenti dell’azienda o del complesso aziendale, salvo che gli stessi non siano confluiti in una stabile organizzazione situata nel territorio dello Stato”.
È chiaro pertanto che con il trasferimento all’estero non è possibile sottrarre ad imposizione i plusvalori “latenti” in capo ai beni facenti parte del patrimonio aziendale. Unica esimente, anche se sostenuta solo da una parte della dottrina, potrebbe riguardare la tassazione degli intangibles, qualora non risultassero già iscritti a bilancio: questa tesi sarebbe infatti rafforzata dall’oggettiva difficoltà di stabilire, in base alla legislazione di ciascun Paese estero, la possibilità di iscrivere a nuovo e di ammortizzare beni immateriali quali ad esempio l’avviamento. Un ulteriore aggravio sarebbe poi rappresentato dall’obbligo di assoggettare a tassazione le eventuali riserve in sospensione d’imposta iscritte nell’ultimo bilancio ante trasferimento, con specifica menzione anche dei fondi di “secondo gruppo”, ovvero quelli destinati a concorrere alla formazione del reddito imponibile in capo alla società solo in caso di distribuzione ai soci.
Quale tassazione applicare, poi, ai plusvalori emergenti dalla valutazione dell’azienda trasferita a valori correnti e agli eventuali fondi in sospensione?
Per le società di capitali l’IRES sconta l’aliquota ordinaria, senza possibilità di beneficiare di regimi sostitutivi, mentre per le imprese individuali e i soci di societàdi persone l’art. 166, co. 1 del T.U.I.R. ha previsto la possibilità di applicare il regime della “tassazione separata” di cui all’art. 17, co 1, lett. g) e l).
E ai soci di società di capitali?
Il comma 2-ter dell’art. 166 chiarisce fortunatamente che il trasferimento all’estero di una società di capitali non genera materia imponibile in capo ai soci e d’altra parte non potrebbe essere altrimenti, in quanto non vi è alcuna norma nel nostro ordinamento che attribuisca direttamente una natura liquidatoria a tale operazione, né indirettamente a mezzo di un divieto. Anche il Codice Civile contribuisce a rafforzare l’intendimento del legislatore prevedendo agli artt. 2437 e 2473 il diritto di recesso dei soci che non abbiano concorso alle delibere inerenti il trasferimento all’estero della sede societaria e ammettendo implicitamente che tali delibere non comportano di per sé lo scioglimento della società.
Infine, qual è il momento effettivo in cui si realizzano i presupposti per l’imposizione?
Gli ultimi due commi (2-quater e 2-quinqies) dell’art. 166 introducono un regime opzionale di carattere “sospensivo”, alternativo a quello del realizzo immediato, attivabile dai soggetti che trasferiscono la propria residenza fiscale in Stati appartenenti all’UE ovvero aderenti all’Accordo sullo SEE (Spazio Economico Europeo), con i quali l’Italia abbia stipulato un accordo sulla reciproca assistenza in materia di riscossione dei crediti tributari. Tale regime consente, mediante l’esercizio di una specifica opzione, di differire la tassazione delle plusvalenze latenti in capo alle attività patrimoniali dell’azienda trasferita al momento dell’effettivo realizzo (ad esempio alla data di effettiva cessione dei beni o di destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’impresa). Tuttavia è bene ricordare che tale differimento riguarda solo il momento di liquidazione delle imposte in quanto la plusvalenza nella sua entità, ovvero la differenza fra il valore di mercato del bene ed il costo fiscalmente riconosciuto in capo all’impresa, e di conseguenza il debito verso l’Erario, si “formano” al momento in cui si realizza il trasferimento dell’azienda, e come tali restano immodificabili.
Quanto sopra espresso evidenzia quindi la delicatezza del problema del trasferimento della sede all’estero, terreno su cui bisogna muoversi con estrema accortezza al fine di evitare spiacevoli azioni da parte dell’Agenzia delle Entrate.