Swatch – La provocazione come chiave del successo
Reinterpretare la tradizione per recuperare una specializzazione nazionale
Carlo Giordanetti, direttore creativo di Swatch, ci accompagna in un percorso che evidenzia come l’innovazione del prodotto sia stata sempre in linea con una comunicazione diretta a rompere gli schemi per provocare, sorprendere ed emozionare. Abbracciare canali distributivi insoliti come il fruttivendolo o vendere su una strada in coda sono esempi di coerenza di un marchio che da più di trent’anni ha saputo “reinventare” l’industria dell’orologio diventando protagonista del rilancio e del recupero di una specializzazione nazionale.
Quanto la comunicazione ha inciso sulla capacità di tenere vivo un mercato svizzero in crisi negli anni ‘80?
Sicuramente il mix del momento in cui Swatch è arrivato sul mercato è stato l’elemento scatenante. Non c’era solo un prodotto ma un oggetto rivoluzionario e provocatorio che andava a rompere gli schemi di un settore “nobile” come quello dell’orologio, svizzero per giunta, utilizzando un materiale povero come la plastica. Si trattava di un brand che si poteva vivere in tanti modi diversi, sì attraverso la comunicazione tradizionale ma anche con la capacità di sorprendere e stravolgere. Ad esempio, siamo stati uno dei primi marchi ad integrare l’evento all’interno di un piano di comunicazione, un linguaggio assolutamente di rottura, anche la provocazione visiva ha fatto parte di Swatch pur rimanendo in questa “svizzeritudine” come mi piace definirla.
Avete saputo reinventare l’industria dell’orologio, qual è stata la leva che ha inciso maggiormente in questo rilancio?
Direi sicuramente aver capito che il rilancio dell’industria svizzera doveva passare attraverso una democratizzazione del prodotto. Doveva cambiare la sua percezione. In questo senso la produzione robotizzata, in serie all’interno di un mercato dove la figura dell’artigiano, dell’orologiaio era sempre stata prevalente, ha trasformato questa figura in un esperto non solo del movimento miniaturizzato ma anche di altre cose. L’introduzione di un materiale quasi sacrilego a quei tempi è stata una novità assoluta, oggi la plastica invece è stata nobilitata dal mondo del design, ma all’epoca era una vera e propria provocazione.
Qual è stato il filo conduttore che Swatch ha utilizzato e usa nella sua comunicazione?
Ci sono degli elementi del marchio che per coerenza si ripetono nella nostra comunicazione, uno di questi è l’emozione. Come diceva il fondatore della Swatch: “se un progetto non comunica un’emozione ad un bambino di dieci anni, vuol dire che non funziona”. Quindi, l’immediatezza prima di tutto, certo ci può essere a volte una comunicazione più sofisticata, ma tendenzialmente puntiamo ad un messaggio che colpisca in modo diretto. Il secondo elemento è il fatto di avere una storia, ogni orologio ne ha una, è un esercizio di narrazione, la collezione è un po’ lo specchio di quello che succede durante una campagna.
Avete anticipato la moda del momento: lo storytelling?
Siamo stati un po’ antesignani di diverse cose come gli eventi di cui sopra. Lo storytelling ha fatto parte del nostro modo di essere sin dal 1984, c’è sempre una storia legata ad un orologio. Una parte della comunicazione ha il fil rouge della narrazione e su di essa si inserisce il messaggio più istituzionale e legato al brand.
L’arte e le collaborazioni artistiche sono quasi una costante delle collezioni Swatch: esigenza di marketing oppure profonda sensibilità e propensione artistica della casa?
Sì, è una costante, ci sono sempre stati dei legami con artisti diversi nel tempo, e anche in questo mi sento di dire che siamo stati pionieri. Abbiamo iniziato molto presto, il primo progetto è stato fatto perché l’arte ha un po’ di magia intorno a sé, non è un universo accessibile a tutti e la provocazione è stata di creare un oggetto (poco caro) del desiderio, non tanto legato al suo valore monetario ma all’aspetto intrinseco, ovvero, l’interpretazione dell’artista. Poi si è avuta un’evoluzione della nozione di artista che è diventata una figura che abbraccia più campi. Pertanto sono nati dei modi di dialogare con gli artisti che vanno al di là del prodotto, per esempio il progetto Swatch Art Peace Hotel a Shanghai, un luogo unico che è allo stesso tempo hotel, punto vendita e residenza per artisti, un luogo dove artisti provenienti da tutto il mondo possono vivere e lavorare. Sono operazioni che fanno parte integrante della mission del marchio e non dell’aspetto commerciale.
La qualità di Swatch ha alle sue spalle una lunga storia di tradizione e attenzione al particolare. Come ci si mantiene in un mercato sempre più futuristico e tecnologico comunicando la tradizione?
Prendendolo in contropiede, nel senso che abbiamo visto che da un brand come il nostro ci si aspetta quasi di più l’essere presi di sorpresa che non vedere assecondate le proprie aspettative. Mi spiego, quando sono entrati nel mercato gli smart watch nel 2013, noi abbiamo partecipato alla fiera di Basilea, dove di solito non siamo presenti per vari motivi, tra cui quello di non avere un prodotto tradizionale. Però quell’anno festeggiavamo i nostri 30 anni e abbiamo preso un grande stand e organizzato una presentazione alla presenza anche dei giornalisti, i quali si aspettavano qualche joint venture con i grandi marchi come Apple. Noi invece abbiamo presentato Swatch Sistem51, un orologio meccanico, quindi l’opposto a quello che il mondo si aspettava, naturalmente con un lavoro di tecnologia dietro che reinterpretava la tradizione. È anche una sfida, difficile da comunicare in canali non predeterminati, che richiedono maggiori spiegazioni. Un anno dopo abbiamo presentato il nostro primo orologio connesso, la nostra piccola innovazione è stata di dire cose diverse rispetto agli altri: non avevamo un conta calorie ma dicevamo cosa si poteva mangiare in funzione delle calorie.
Quanto investe la Swatch in ricerca? E quali sono le figure che intervengono nel processo di ricerca?
La forza di Swatch è di fare parte di un gruppo che si chiama Swatch Group, ha 19 marchi e si fonda sulla ricerca. Ci sono molte aziende che fanno ricerca anche di microcomponenti dell’orologio, noi beneficiamo molto di questo sistema, di aziende indipendenti che ovviamente dialogano con noi e a cui, spesso, diamo degli input. Ovviamente la ricerca si applica su vari fronti: dalla tecnologia al materiale, al design.
Innovazione costante e strategie sempre molto particolari, come gli orologi venduti nei fruttivendoli. Sembra che la vostra ricerca avvenga sempre in contesti che non siano quelli tipici del settore, come si arriva a questo? Si tratta comunque di scelte coraggiose…
Beh il famoso bambino di dieci anni, di cui sopra, osa! Quindi questa voglia di sorprendere è sempre presente. Alla base di canali alternativi c’è la voglia di emozionare, sorprendere, andare contro le regole. Per esempio a Pasqua al passo del Gottardo si formano delle code lunghissime…e noi venderemo l’orologio che celebra la coda, con un packaging con all’interno dei giochi per bambini da usare in macchina. Per dirle che la provocazione è alla base del nostro modo di essere.
Il mercato italiano come si colloca rispetto al resto del mondo?
Il mercato italiano per Swatch è il diamante centrale della collana, è come se questo prodotto avesse delle affinità con lo spirito italiano, come l’individualità, ogni orologio è diverso da un altro, la democraticità del prodotto consente di viverlo con una certa leggerezza, quindi di cambiarlo spesso. Sicuramente il discorso dello storytelling è una delle cose più facilmente riconducibili al popolo italiano, nel senso che a noi piace raccontare, ascoltare le storie, e questo ha contribuito al successo del marchio. Poi abbiamo avuto la fortuna, agli esordi, (1988) che il manager svizzero ha costituito un team italiano per il design a Milano, negli anni della cultura del design, e questo ha dato un impulso importante al brand.