Solo, con il proprio istinto
Senza carta, bussola, altimetro, orologio, cellulare e GPS a piedi per le Ande o per i Pirenei. Franco Michieli, esploratore originale, racconta il suo personalissimo significato di esplorazione e come questo accompagni l’essenza della sua vita senza una programmazione, con l’ausilio dei segnali della natura. La serendipità è la sua maggior alleata.
Che cosa significa per Lei esplorazione?
Parlando di esplorazione mi riferisco a un atteggiamento di scoperta dell’ambiente che mi circonda simile a quello praticato da animali e piante, o dalle popolazioni umane native, piuttosto che ai grandi viaggi dei secoli passati finalizzati a scoprire e conquistare terre o rotte commerciali spesso devastanti per i popoli e gli ecosistemi. Il mio viaggiare è quindi una sorta di serendipity: immagino un possibile percorso attraverso un territorio, ma poi ciò che mi interessa sono gli imprevisti, gli eventi che rivelano qualcosa di sconosciuto, le deviazioni dovute a qualche ostacolo, la bellezza dei momenti non programmati dal cervello umano. La natura si evolve sfruttando il caso, non possiamo abbandonare un metodo così prezioso.
Che cosa la spinge a viaggiare solo con se stesso senza nessun ausilio tecnologico?
L’idea originale dei miei viaggi a piedi è stata quella di ridurre per quanto possibile gli aiuti artificiali alla ricerca di un’esperienza più autentica, semplice e umana. Per alcuni alpinisti si tratta di fair play, cioè di praticare un gioco leale, ma per me vale di più la conoscenza che così si può raggiungere. Per esempio, attraversando le Alpi da Ventimiglia a Trieste all’età di 19 anni, scelsi di dormire all’aperto, senza tenda e senza fornellino, ottenendo una relazione con la montagna più profonda e duratura che se avessi campeggiato, o dormito e mangiato nei rifugi. Conobbi possibilità di intimità con la natura che diversamente non avrei nemmeno immaginato. Dopo vent’anni di simili esperienze, mi sono reso conto che per proseguire in quella ricerca dovevo togliere qualche altro aiuto divenuto superfluo: come geografo, mi è venuto spontaneo provare a lasciare a casa i miei strumenti tradizionali, carta, bussola, altimetro, orologio, e ovviamente i nuovi strumenti sostitutivi della relazione diretta col mondo, come il cellulare e il GPS. È stata la scelta più fruttuosa della mia vita: mi ha permesso di scoprire che anche oggi nella relazione uomo-natura c’è la possibilità di trovare vie e tenere rotte come animali migratori, aprendo così la porta a spazi nuovi e meravigliosi creduti inaccessibili.
Il contatto con la natura più rude come si sposa con l’invasione delle tecnologie nella sua vita?
Il problema dell’invasione tecnologica è che sul lavoro e in molti altri campi della vita quotidiana sta diventando obbligatoria e non più una scelta. Solo ritirandosi a vita eremitica si potrebbe forse sfuggire del tutto a questo passaggio repentino dell’umanità dal rapporto col reale a quello col virtuale, ma non è il mio caso. La mia difesa, accessibile a chiunque, consiste quindi nel limitare l’uso di tecnologie superflue (per esempio, niente navigatore in auto!) e soprattutto nel conservare dei tempi, o almeno dei momenti, in cui mi libero degli strumenti tecnologici, a partire dall’orologio o dal telefonino. Uso solo corpo e sensibilità per guardare il mondo, mi permettono di tenere vivo il senso della posizione umana nell’universo, cioè della nostra piccolezza e fragilità, e della nostra dipendenza da ciò che è altro da noi. Ma anche di scoprire come molte soluzioni che cerchiamo si trovino naturalmente in noi e nei suggerimenti dell’ambiente. Tra l’altro, l’assegnazione del Premio Nobel per la Medicina 2014 ai ricercatori John O’Keefe, May-Britt Moser ed Edvard Moser che hanno scoperto il funzionamento delle cellule cerebrali che ci permettono di orientarci e di ritrovarci quando ci siamo persi, confermano le convinzioni da me sviluppate in tante esplorazioni. L’importante è aver presente che queste facoltà non funzionano in un cervello in quanto tale, ma in un cervello inserito in un ambiente.
C’è la possibilità che l’uomo possa recuperare la parte più recondita di se stesso attraverso quello che rimane della natura nelle città?
Esistono molte discipline che aiutano nella ricerca della parte profonda di sé anche in ambienti artificiali, per esempio la meditazione. Per me è interessante cercare non solo cosa c’è in me, ma ancora di più che cosa accade tra me e l’ambiente quando mi trovo in condizioni non preconfezionate; ovvero quando gli eventi possono scorrere liberi dall’organizzazione umana. È chiaro che in città ciò può avvenire solo entro certi limiti; anche nelle aree urbane si può vagabondare, trovarsi senza mappa in quartieri sconosciuti, ritrovare l’orientamento osservando il sole, entrare in relazione con animali e piante che trovano angoli insospettati per vivere. È un ottimo esercizio quotidiano, rasserenante e indispensabile per prepararsi a percorsi più selvaggi. Credo però che situazioni di maggiore distacco temporaneo dalla civiltà siano necessari per riconoscere facoltà umane che ci hanno permesso di vivere ed esplorare il mondo nel corso delle decine di migliaia di anni della preistoria, sensibilità meravigliose e dimenticate che richiedono impegno autentico per riemergere.
Che cosa l’ha stupita di più nei suoi viaggi?
Fin dalle prime lunghe traversate a piedi sono rimasto molto colpito dalle capacità mie e dei miei compagni di riadattarci rapidamente alla vita in movimento nella natura. È difficile immaginare quanto si stia bene quando per qualche mese (o almeno qualche settimana) camminiamo per montagne, foreste o distese innevate. La parte più stupefacente di questo sentirmi in un ambiente amico e familiare riguarda ciò che accade nella nebbia, con scarsi o nulli riferimenti, quando non si sa più dove ci si trova in ambienti sconfinati: sempre, subito dopo i momenti di maggiore incertezza, e spesso senza sapere come, mi sono ritrovato su una buona via o addirittura nel luogo preciso che sognavo di raggiungere. Questo fatto sorprendente sarebbe stato inconoscibile se avessi tenuto la rotta con facilità grazie a mappe e strumenti. Questi sono i momenti che valgono bene la rinuncia alla tecnologia.
Il suo ultimo libro è intitolato La vocazione di perdersi, ci racconti di questa vocazione.
Il titolo provvisorio del libro era “La libertà di perdersi”, poi sostituito da quello definitivo. Vocazione e libertà sono complementari, e sottolineano la necessità per gli esseri viventi, e in particolare per degli esseri culturali come l’uomo, di continuare a mettere alla prova la propria visione del mondo per sfuggire all’omologazione, alla banalità e alle derive semplicistiche, che oggi fra l’altro trovano spazi inusitati. Il desiderio di non accontentarsi di ciò che ci viene raccontato, venduto e raccomandato tutti i giorni è alla base del desiderio di perdersi rispetto agli schemi del proprio tempo, per scoprire se è vero che fuori da tutti questi “consigli per gli acquisti” c’è davvero un mondo difficile o viceversa. Per me questa è una vocazione nel senso che la possibilità di perdermi nella natura, in ambienti scelti secondo esperienza, mi lascia tranquillo, anzi mi attrae come fonte di grande e positiva serenità. Mille avventure mi hanno rafforzato in questa convinzione, dato che mi hanno dimostrato come quasi sistematicamente sia la via sconosciuta, o la località invisibile, a trovare me, e non viceversa. La vocazione si rafforza di volta in volta perché ad ogni occasione si vive il sentimento di trovarsi all’interno di una relazione misteriosa, che non si sa spiegare, e che pure pare più grande di tutto il nostro mondo umano. Credo sia questo il sentimento da cui nasce ogni forma di spiritualità.