Rileggere Platone per capire l’Ipad

Rileggere Platone per capire l’Ipad

di Stefano Moriggi
Nuovi modelli didattici e cultura d’impresa per oltrepassare paure antiche…

Tutto ciò che non si conosce, spaventa. Fin qui niente di strano. Tuoni e fulmini hanno terrorizzato l’essere umano finché – come ricordava il filosofo napoletano Gianbattista Vico – i nostri lontani progenitori non hanno iniziato a interrogarsi sulle cause e sulla natura di quel “terrificante” fenomeno. A volte, però, ben più che l’oggetto delle nostre paure è ancor più pericolosa l’incapacità di affrontarle. Non di rado, infatti, risulta più rassicurante dare un nome (o un volto) a ciò che ci inquieta, cercando di conviverci al meglio, piuttosto che indagarne l’origine o l’effettiva nocività. E la tecnologia non fa eccezione a questa regola: demonizzare i suoi aspetti (apparentemente!) più minacciosi rappresenta ancora troppo di frequente una scorciatoia – se non altro psicologica – per mettere al sicuro da “domande indiscrete” convinzioni, valori e visioni del mondo ritenute irrinunciabili.

Ormai da anni, per esempio, è molto diffusa – persino tra sedicenti addetti ai lavori – l’idea che l’era del digitale stia ingenerando scompensi incalcolabili sia di ordine relazionale, oltre che didattico, sulle giovani generazioni. Già nel 2009, per citare un caso, un trio di allarmati psicologi (Maria Rita Parsi, Tonino Cantelmi e Francesca Orlando) mettevano in guardia dalla perniciosa pervasività dello “spettro del digitale”. E nel loro “L’immaginario prigioniero” (Mondadori) sostenevano l’urgenza di recuperare “il significato e il valore di quella ritualità che rafforza e che consente di affondare solide radici nell’esperienza di tutti i giorni”. Ma questa idea di contraffazione esistenziale prodotta dalle “macchine” sui loro più vulnerabili e assidui fruitori – ormai comunemente chiamati “nativi digitali” – aveva già trovato sfogo nella preoccupata analisi di Francesco Alberoni. Il noto sociologo dell’eros, infatti, dalle colonne del Corriere della Sera (23 febbraio 2008) proponeva addirittura una “moratoria periodica di due mesi l’anno” da YouTube e dalle chat quale cura “disintossicante” per giovani “senza radici, senza un rapporto reale e drammatico con la vita, senza la capacità di confrontarsi e di riflettere e con l’illusione di essere perfetti”.

E ancor oggi, nonostante la maggior confidenza con i new media, la diffi denza tecnofobica non pare evoluta in una consapevolezza critica dei rischi effettivi e delle reali opportunità. Solo qualche giorno fa, infatti, il filosofo Roberto Casati ha parlato (Il Sole 24Ore, 12 maggio 2013) di un minaccioso “colonialismo tecnologico” per alludere a una “ideologia” dominante destinata a monopolizzare, non senza temibili conseguenze, il mondo della scuola. È un ritratto patologico quello che emerge da questa tipologia di diagnosi dell’era digitale. Il virtuale “intossica”, la tecnologia “sradica” e al contempo impone le sue dinamiche di spaesamento. E a farne le spese sembrano essere il principio di realtà, l’autenticità dell’esperienza, oltre che la possibilità di relazioni che non siano semplici e fugaci connessioni – per dirla con le parole di Zygmunt Bauman.

Quando poi queste epocali riflessioni precipitano nello specifico cognitivo dei nativi digitali, quelle che di fatto stanno configurandosi come inedite abilità (e relativi limiti) nel gestire e assimilare informazioni e contenuti, vengono generalmente stigmatizzate quali deficit di apprendimento provocati dalla frequentazione con una rete che “esternalizza” il sapere annichilendo l’esercizio mnemonico e l’elaborazione concettuale; che non favorisce l’analisi critica, la selezione delle fonti e dei dati e che ostacola la lentezza necessaria alla riflessione .

Tuttavia, prima di certificare tale presunta alienazione didatticoesistenziale e di individuare nella tecnologia la “radice” di ogni deriva psico-sociale, occorrerebbe almeno – come suggeriva sempre Vico – accantonare la “boria dei dotti” e scandagliare le proprie paure. Magari cominciando a chiedersi se (e quanto) siano “nuove”; o se, al contrario, non rappresentino piuttosto il ritorno di antichi timori che già avevano scosso il fragile equilibrio dell’animo umano.

Basterebbe questo modesto esercizio – e la lettura di qualche classico della storia del pensiero occidentale – per comprendere qualcosa in più del nostro tempo, di noi stessi e anche delle proprie angosce, più o meno fondate che siano. In un celebre passo del Fedro, per esempio, Platone mette in scena un interessante dialogo tra il re Thamus, “che regnava allora sull’intero Egitto” e il dio Theuth, “il primo a scoprire i numeri, il calcolo, la geometria, l’astronomia e inoltre i giochi degli scacchi e dei dadi e soprattutto la scrittura”. Quest’ultimo, esibite con orgoglio le sue “tecniche” al sovrano, auspicava che venissero distribuite al popolo e, alludendo in particolare alla scrittura, aggiungeva: “questo insegnamento, o re, renderà gli Egiziani più sapienti e più capaci di ricordare, perché è stato inventato quale rimedio per la memoria e la sapienza”. Ma Thamus, stemperando l’entusiasmo del dio inventore, replicava: “diversi sono colui che è capace di generare gli elementi di una tecnica e colui, invece, che è capace di giudicare quale grado di danno e di utilità essa possegga per coloro che ne faranno uso”. E una volta rivendicati il dovere e la responsabilità di una valutazione più articolata della “tecnicascrittura”, così proseguiva: “essa procurerà l’oblio nelle anime di coloro che l’apprendono per mancanza di esercizio della memoria, in quanto, confidando nella scrittura, arriveranno a ricordarsi a partire dall’esterno, da segni estranei, non dall’interno di se stessi: non di memoria, ma di richiamo alla memoria hai trovato il rimedio”.

In altre parole, esternalizzazione della conoscenza e annichilimento della memoria. Ma non è tutto… “Ai tuoi allievi – incalzava il re – procuri presunzione di sapienza, perché avendo acquisito grazie a te molte informazioni senza insegnamento sembreranno pieni di conoscenza, mentre per lo più saranno privi”. Ovvero, incapacità di elaborare e selezionare saperi attendibili e utili nozioni.