Quando il mondo tornò “piatto”
di Stefano Moriggi
Le nuove logiche della cooperazione digitalmente aumentata.
Da quando, anche in Italia nel 2003, si è appresa la teoria delle “3 T” di Richard Florida, il dibattito sulle abilità su cui investire al fine di stimolare e agevolare l’ascesa di una “nuova classe creativa” pareva essersi arricchito, appunto, di tre nuove e imprescindibili parole d’ordine: Tecnologia, Talento e Tolleranza. L’economista di Newark (New Jersey) già all’alba del nuovo millennio era infatti convinto che “il fattore chiave nella competizione globale non fossero più beni, servizi o flussi di capitale, ma la competizione per le persone”. Più nel dettaglio, si tratterebbe di comprendere che, sempre di più, la disponibilità di un capitale umano portatore di idee efficaci ed innovative, condivise, perfezionate e rese operative anche grazie alla duttilità dei nuovi supporti tecnologici avrebbe garantito quel valore aggiunto senza del quale sarebbe ormai impossibile rendersi competitivi nell’epoca della globalizzazione.
Il che, come non pochi hanno osservato, sembrerebbe restituire centralità all’essere umano e alle sue “skills” proprio in un tempo in cui le macchine parrebbero aver preso, e da più punti di vista, il sopravvento. Sintetizzando, quanto Florida è andato “predicando” in più di un volume – “La classe creativa spicca il volo” (Mondadori) è solo uno dei suoi testi dedicati al tema – è la necessità di scommettere su una combinazione opportunamente calibrata di talenti in grado di cooperare, confrontandosi criticamente e valorizzando le proprie diversità e differenze. Ovviamente, avvalendosi del potenziamento strumentale, sempre più performativo, offerto dalle piattaforme tecnologiche funzionali a costituire, sostenere e (almeno potenzialmente) far evolvere team, équipe e gruppi di lavoro per cui i tradizionali vincoli spaziotemporali vanno relativizzandosi.
Ora, che la diversità (di opinioni, di temperamento, di formazione, di cultura, di provenienza, ecc.) rappresenti, se debitamente gestita, una ricchezza all’interno di un qualsivoglia progetto cooperativo è cosa assodata da tempo; che la tecnologia, proprio per il fatto stesso di consentire (anche) collaborazioni a distanza, possa favorire la composizione di “formazioni” eterogenee, è un’esperienza ormai quotidiana; che, infine, la tolleranza sia un terreno fertile su cui far crescere e prosperare “classi creative” sul modello definito da Florida o che, quanto meno, costituisca il minimo comune denominatore utile per superare costruttivamente i conflitti e le divergenze che ogni autentica diversità inevitabilmente porta con sé, è evidenza non meno metabolizzata, quanto meno a parole…
Tuttavia, come sempre quando si ha a che fare con la tecnologia, bisogna fare attenzione a non ridurre il contributo delle “macchine” all’interno di un qualsivoglia progetto (o idea) – nella fattispecie si tenga pur conto del modello delle 3 T di Florida – alla sua dimensione puramente strumentale. Mi è capitato più volte in questo senso, anche dalle pagine di Logyn, di raccomandare la necessità di “pensare con le macchine”. Ovvero, di sottolineare l’importanza e l’urgenza di approfondire la natura e le dinamiche della nostra interazione con le tecnologie indagando, tra l’altro, come la mediazione col mondo “fuori di noi” consentita e filtrata da dispositivi diversi tenda a rimodellare stili di vita, di relazione e di apprendimento.
Non fa eccezione il tema della cooperazione così come fin qui è stata tematizzato e auspicato. Sarebbe infatti ingenuo dare per scontato che le logiche cooperative di gruppi, più o meno eterogenei, che si generano quando si lavora faccia a faccia, siano del tutto identiche che a quelle che si innescano quando, invece, ci si trova a operare on line.
Ci si limiterà in questa sede – salvo magari tornare sul tema nei numeri successivi del presente periodico – a prendere in esame alcuni aspetti tutt’altro che trascurabili per chiunque volesse cimentarsi nell’impresa tanto complessa quanto meritevole di creare gruppi di lavoro eterogeneo in grado di lavorare in modo creativo e costruttivo (anche) avvalendosi di ambienti virtuali.
Ogni discussione è tale se i partecipanti, magari non tutti, dimostrano di avere opinioni diverse, se non addirittura divergenti, sul tema in questione. In un gruppo di lavoro, proprio facendo tesoro dell’attrito tra le varie “diversità”, si dovrebbe giungere a una qualche conclusione che – per lo meno teoricamente – sia migliore di quelle a cui sarebbero pervenuti i vari individui singolarmente. Al di là del fatto che non sempre, effettivamente, gli auspici teorici si traducono in pratica, la domanda che qui occorre farsi è la seguente: le dinamiche che si innescano nella discussione di un team che lavora in presenza sono del tutto analoghe rispetto a quelle che caratterizzerebbero un gruppo on line? Una delle prime autorevoli ricerche, svolta per altro in un contesto manageriale, che ha cercato di dar risposta a tale quesito ha infatti mostrato che esistono sensibili discrepanze tra équipe che lavorano in presenza e altre che cooperano on line (si veda in proposito: Hightower, R. T., & Sayeed, L. (1995) The impact of computer mediated communication systems on biased group discussion. Computers in Human Behavior, 11(1), 33-44; ma anche Merrill E. Warkentin, Lutfus Sayeed, Ross Hightower (1997) Virtual Teams versus Face-to-Face Teams: An Exploratory Study of a Web-based Conference System. Decision Sciences, 28(4), 975-996).
Più nello specifico, i ricercatori hanno osservato come dei gruppi di lavoro (alcuni in presenza altri on line) si comportavano nella selezione di personale da assumere. Utilizzando il paradigma dei profili nascosti, ai soggetti sottoposti all’esperimento veniva chiesto di valutare i curricula di diversi candidati per una posizione di marketing manager. I curricula erano stati modificati in modo che uno solo dei candidati corrispondesse al profilo richiesto e a ciascuno dei componenti dei diversi gruppi venivano fornite solo una porzione dei curricula in questione.
Un primo risultato degno di nota è stato che nessun gruppo (né quelli in presenza, né quelli on line) sia riuscito a identificare il candidato “migliore”. Evidentemente, come ha successivamente commentato Patricia Wallace – psicologa del Maryland University College – “lo scambio di informazioni [all’interno dei gruppi] non era stato sufficientemente ampio da consentire di prendere una decisione obiettiva e basata sul quadro completo della situazione”. Ma se l’opportuna osservazione di Wallace ribadisce, ancorché in sintesi, come un “lavoro di gruppo” di per sé non equivalga a una cooperazione razionale, una seconda rilevazione della ricerca contribuiva a individuare una importante specificità dei gruppi on line.
Nelle discussioni on line, infatti, era sensibilmente superiore il numero di preconcetti che viziavano i criteri oggettivi di selezione. Osservando quanta parte delle informazioni a disposizione dei singoli individui veniva condivisa nel dibattito, i ricercatori riuscivano a monitorare – e questo, appunto, avveniva molto più frequentemente on line – una tendenza interessante. Se da un lato, infatti, i membri dei gruppi tendevano a condividere informazioni positive sui loro candidati preferiti e informazioni negative su quelli che meno catturavano le loro simpatie; dall’altro, l’evoluzione della discussione tendeva a privilegiare il candidato sostenuto dalla maggioranza. Si andava progressivamente consolidando un consenso acritico, venendo meno le voci di contrasto. E questa inclinazione era circa di due volte superiore nei gruppi on line rispetto a quelli in presenza.
Il che, a ben vedere, non deve in alcun modo screditare tale modalità (co)operativa, ma piuttosto dovrebbe rendere ulteriormente consapevoli che la compresenza delle 3 T di Florida non possa in alcun caso essere intesa come una ingenua giustapposizione di Tecnologia, Talento e Tolleranza; ma vada piuttosto progettata all’interno di una attenta comprensione delle dinamiche culturali e psicologiche che l’interazione con certi supporti e dispositivi possono innescare.
Ancora a proposito della “Tolleranza” come minimo comune denominatore utile a ottimizzare il fattore-diversità, si potrebbe aggiungere qualche breve osservazione sul fenomeno del Ingrooup e Outgroup on line. In sintesi, si tratta del costituirsi di un “noi” contrapposto a “gli altri”. In contesti di cooperazione e collaborazione virtuali le differenze culturali, di fuso orario, i diversi ritmi di vita, le barriere linguistiche, usi e costumi dissimili in diversi studi hanno mostrato di avere un impatto potenzialmente ancor più forte che nei gruppi in presenza. Come ha notato ancora Patricia Wallace nel suo recente “Psicologia di Internet” (Raffaello Cortina, 2017): “I team composti da membri geograficamente disomogenei mostrano spesso maggiori conflitti e problemi di coordinamento, e una più debole identificazione dei singoli con il gruppo. Il problemi – prosegue Wallace – risultano particolarmente pronunciati quando il team è sbilanciato e la parte minoritaria finisce per sentirsi esclusa”.
Pertanto, se – come ebbe a sottolineare (2005) Thomas Lauren Friedman nel suo “Il mondo è piatto. Breve storia del Ventunesimo secolo” (Mondadori), la tecnologia (in particolare Internet) ha contribuito a smantellare barriere culturali, temporali e logistiche; d’altra parte, occorre non farsi prendere da un ingenuo ottimismo. La tecnologia che ha reso il mondo (di nuovo) “piatto”, ci impone ora di pensare come questa inedita “flatlandia” – molto diversa da quella immaginata nel 1884 dal fantasioso teologo Edwin A. Abbott – stia riscrivendo, ci piaccia o meno, la grammatica e la sintassi delle nostre relazioni personali e professionali. L’alternativa è lasciare che le 3 T di Florida rimangano (o diventino) un vacuo wishful thinking concettualmente incapace però di dare concretezza alle belle intenzioni di cui è foriero.