QUANDO IL GIOCO SI FA SERIO, I FILOSOFI COMINCIANO A PENSARE…
di Stefano Moriggi
Videogiochi e apprendimento
“In questo nostro secolo attraversato dal fragore delle macchine, tra le personalità eminenti della critica della cultura, tra i pionieri della moderna pedagogia, e tra gli scienziati delle dottrine antropologiche, sta crescendo l’attenzione per la grande significatività che il gioco riveste nello strutturarsi dell’esperienza umana”. Così, nell’ormai lontano 1957, esordiva Eugen Fink (1905-1975) in uno dei più originali saggi – Oasi del gioco – dedicato all’esperienza ludica che la filosofia novecentesca di lingua tedesca abbia conosciuto. Il brillante e originale allievo di Edmund Husserl era persuaso infatti che il gioco fosse un argomento filosofico a tutti gli effetti e che pertanto meritasse l’attenzione e il rigore tradizionalmente riservati ai più consueti temi della ricerca e della riflessione accademica.
Inoltre, era convinto pure del fatto che i tempi fossero maturi per avviare una radicale perlustrazione antropologica di una dimensione umana tanto complessa quanto ancora trascurata. “Certo nella storia dell’uomo – prosegue Fink – vi furono epoche che vennero vissute nel segno del gioco più del nostro presente, tempi che furono più sereni, più liberi e giocosi, che conobbero maggior tempo libero e furono in intima comunione con le celesti Muse; ma nessun epoca ebbe oggettivamente così tante possibilità e occasioni di gioco quanto la nostra, poiché nessuna ebbe a disposizione una così gigantesca organizzazione della vita”. Il filosofo di Costanza osservava al contempo con interesse e sospetto il proliferare di campi da gioco, campi sportivi, la produzione di giochi di vario tipo su scala industriale, ma non era del tutto convinto che questa sovraesposizione corrispondesse di fatto a una effettiva “comprensione approfondita dell’essenza del gioco” quale esperienza privilegiata per calarsi nelle pieghe dell’animo umano. E proprio per questo riteneva che fosse ormai propizio il tempo per fare del gioco l’oggetto privilegiato dell’interrogazione filosofica. “È concepito come ciò che non è serio, ciò che non è normativo, ciò che non è autentico… una manifestazione marginale, una compensazione periferica, per così dire un’aggiunta che dà sapore alla pietanza pesante del nostro essere”.
Eppure, appartiene essenzialmente alla costituzione dell’esistenza umana. Con altrettanto rigore dovremmo, a poco più di cinquant’anni di distanza, raccogliere il testimone di Fink e proseguire nel solco da lui tracciato in questa perlustrazione dell’essere umano proprio nelle sue fasi di rigoroso disimpegno. L’industria del gioco sta conoscendo orizzonti e innovazioni che in quei lontani anni Cinquanta neppure si potevano immaginare. L’evoluzione della tecnologia ha reso disponibile il rapido succedersi di generazioni di videogiochi che non poco hanno contribuito a plasmare l’immaginario dei più giovani. Ma anche oggi, la riflessione nel merito non si spinge molto oltre l’opportunità dell’uso e il rischio dell’abuso di questi seducenti universi virtuali in cui i vulnerabili fruitori rischierebbero di perdere una volta per tutte la possibilità di un contatto autentico con la realtà del mondo e i suoi significati profondi.
Ancora una volta, però, si rischia di rimanere in superficie di un fenomeno che invece richiederebbe ben altro tipo di analisi, ben altre modalità di approfondimento. A onor del vero, occorre riconoscere che non è mancato chi, per esempio, ha ritenuto che l’approccio ludico – e in particolare l’utilizzo di veri e propri videogiochi – potesse aprire un nuovo orizzonte alla didattica.
Più precisamente si dovrebbe parlare di tecnologie educative, un campo ampio e sfaccettato ma sintetizzabile in due principali scuole di pensiero. Da un lato, c’è chi ritiene che videogiocare faccia bene in sé, in quanto produce apprendimento e contribuisce a sviluppare abilità e attitudini preziose anche in contesti ben diversi e lontani da quelli di tali ludiche virtualità. In questo caso si parla di comunemente di edutainment. Sull’altro fronte, invece, c’è chi nel videogioco cerca una credibile simulazione della realtà quale occasione e momento piacevolmente formativo. In riferimento a questo approccio si parla, invece, di serious games.
Come di recente ha sottolineato Pier Cesare Rivoltella – presidente della SIREM (Società Italiana di Ricerca sull’Educazione Mediale) e docente di Tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento presso l’Università Cattolica di Milano – “nessuna delle due ipotesi è convincente. Non lo è la prima – spiega il pedagogista – perché non esiste apprendimento che non comporti fatica”. E non lo è neppure la seconda in quanto, “già nella forma lessicale [giochi seri] lascia presagire una scarsa disponibilità dell’utente (il bambino, il ragazzo) ad accettarne le regole di ingaggio”. Ciascuno a suo modo, l’edutainment e i serious games, convengono nella necessità di ricorrere al (video)gioco come alleggerimento, edulcorazione dell’esperienza di apprendimento. Ma questo, prima ancora che fraintendere – come puntualizza Rivoltella – la natura stessa dell’appropriazione del sapere nei termini di un’impresa avvincente, ma faticosa – non coglie, per dirla con Fink, la centralità e la pregnanza dell’esperienza-gioco quale “fenomeno esistenziale fondamentale” anche nel più ristretto contesto dell’apprendimento.
Molto più interessante proprio in quest’ottica è l’approccio adottato dal linguista californiano James Paul Gee. Dal suo punto di vista, infatti, il videogioco configura di fatto un dominio semiotico (semiotic domain), ovvero un contesto di segni e significati stratificato su tre livelli costitutivi: a) le grammatiche interne, ovvero le regole del gioco, senza le quali il gioco stesso non potrebbe esistere; le grammatiche esterne, ovvero l’insieme di contatti, scambi e relazioni che vengono formandosi tra i fruitori del gioco, configurando delle vere proprie comunità di interesse, i gruppi di affinità; c) l’identità del giocatore che Gee articola ulteriormente su tre livelli:
c1) l’identità reale, ossia l’individuo che decide di giocare;
c2) l’identità virtuale, ossia l’avatar attraverso le cui caratteristiche ci si avventura nel gioco;
c3) identità proiettiva, ossia il modo in cui l’identità reale interpreta l’esistenza del proprio avatar.
Rileggere l’attività del videogiocare all’interno di questa complessa griglia consente a Gee di cogliere la profondità relazionale che sta alla base dell’esperienza ludica e lascia immediatamente intendere come in nessun modo potrebbe essere banalizzata nei termini di una piacevole evasione, all’occorrenza utile a motivare l’impegno didattico di un qualche
discente. Anzitutto – spiega Gee nel suo Come un videogioco. Imparare e apprendere nella scuola digitale (Raffaello Cortina, 2013) – non deve sorprendere il fatto di concepire il videogioco come un dominio semiotico. Dopotutto, “il linguaggio non è l’unico importante sistema di comunicazione di cui disponiamo: immagini, diagrammi, artefatti, e molti altri testi visivi sono dotati di significato, oggi più che mai”. E se questo è vero, non dovrebbe essere difficile, secondo James, vedere nei videogiochi, specie in quelli più sofisticati e interattivi, “la forma di alfabetizzazione multimodale per eccellenza”. Ora, la consapevolezza che ogni videogioco rappresenti un microcosmo di segni e significati entro cui il giocatore, attraverso la sua identità virtuale, progressivamente si inserisce e interagisce, consente a Gee di fare un passo ulteriore nella sua analisi. Gli permette, infatti, di riflettere sul fatto che non esiste un apprendere astratto, disincarnato, ma solo situato, contestualizzato, ovvero precipitato in (almeno) un dominio semiotico.
E che, quindi, aggiunge Gee, “se siamo preoccupati di stabilire se un apprendimento sia di valore o no – che si tratti di videogiochi o di qualsiasi altra cosa – dobbiamo iniziare a farci domande del tipo: che campo semiotico viene introdotto attraverso questo apprendimento? È un campo valutabile o no? […] Chi apprende sta imparando a comprendere (“leggere”) le parti del campo o anche a produrre (“scrivere”) significati all’interno del campo?”
È proprio grazie a domande di questo tipo che ci si rende conto, per esempio, di quanto sia complesso avere presente quale campo semiotico entri in gioco quando un individuo (o un gruppo di individui) sta cercando di apprendere qualche cosa. Per esempio, mi capitano spesso in sede di esame studenti capaci di ripetere e commentare con proprietà di linguaggio, poniamo, l’imperativo categorico kantiano, ma che alla prova dei fatti non sanno dire come agirebbe il filosofo di Könisberg di fronte a una precisa e concreta situazione. In casi come questi Gee direbbe che lo studente sa “leggere” ma non sa “scrivere” dentro il dominio semiotico dato. In altri termini, ci si trova di fronte un “giocatore dimezzato” in quanto incapace di fare un’attiva esperienza del mondo avvalendosi degli strumenti/concetti conosciuti in quel dato dominio semiotico. Gee nel suo testo argomenta nel dettaglio che l’apprendimento attivo non è ancora un apprendimento critico. Non è questa la sede per addentrarsi in altri tecnicismi; tuttavia, questo stesso articolo dovrebbe quanto meno rappresentare per il lettore un minimo spunto per intuire, ancorché qualitativamente, quanto una rigorosa e analitica riflessione sulle oasi del (video)gioco possa contribuire, proprio nello spirito di Eugen Fink, ad aprire nuovi orizzonti attraverso cui imparare a conoscere noi stessi, raffinando quei metodi e quegli strumenti utili anche per giocare al meglio la partita della nostra esistenza.