Modernizzare l’Italia, per darle fiducia e favorire un nuovo sviluppo industriale

Modernizzare l’Italia, per darle fiducia e favorire un nuovo sviluppo industriale

“Il problema dell’Italia è quello di animare, in tutti i cittadini, lo spirito giovane che ha fatto il Paese, che lo ha spinto fra le sette maggiori economie e che ha permesso il miracolo italiano”: a dirlo e a crederci è Jacopo Morelli, vice presidente di Confindustria e presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria.

Qual è lo stato attuale dell’imprenditoria in Italia?
In una battuta: vorrei ma non posso. La situazione attuale è quella di tanti imprenditori capaci che per fare impresa in Italia devono combattere con un ecosistema che scoraggia le aziende. Aprire e far crescere una società nel nostro Paese, e riuscire a competere con l’estero, è come correre una gara a ostacoli avendo però i piedi legati. E i “lacci e lacciuoli”, per citare Guido Carli, sono oggi rappresentati da 2 principali aspetti: il fisco da confisca, con un total tax rate che pesa sulle imprese per il 68% contro il 46% degli USA, e un costo del lavoro che dimezza il netto delle buste paga deprimendo la domanda interna; l’incertezza della giustizia, che scoraggia gli investitori esteri e nuove assunzioni, tanto che il 36% delle aziende preferisce non andare in causa anche quando sa di avere titolo legittimo pur di non dover affrontare anni e anni di contenzioso. Quando l’Italia correva questi vincoli non erano cosi pesanti e, dove si cresce nel mondo, non lo sono nemmeno oggi. Anche Tonga e Ruanda vengono prima dell’Italia nella classifica della Banca Mondiale che valuta la semplicità di fare impresa. Noi siamo al 65esimo posto, la Germania al 21esimo. Ma non sono numeri astratti, perché dietro un dato ci sono sono imprese che falliscono – 93 al giorno nell’ultimo anno – o che si spostano oltreconfine e start up che non nascono.

Rapporto Governo-Confindustria: si può cambiare il Paese? Lo stato d’animo degli imprenditori…
Siamo pessimisti secondo ragione e ottimisti con la volontà, come diceva Gramsci. Crediamo e vogliamo credere in questo Paese e nelle sue istituzioni, ma i segnali che arrivano dalla classe politica sono purtroppo quelli di non aver capito la profondità della sofferenza economica e sociale di imprese e lavoratori, né di avere la forza, e forse nemmeno la volontà, di incidere sul Sistema Italia. Perché il declino non è un destino, ma il risultato di continue scelte e riforme non fatte. Sono passati due anni dall’ultima vera riforma, quella sulla previdenza del Ministro Fornero, e da allora abbiamo assistito solo ad un piccolo cabotaggio, a leggi di stabilità incapaci di incidere sul tessuto economico, a litigi fra gruppi parlamentari e correnti governative. Ci sono momenti nella storia in cui è invece necessario osare e prescindere dal consenso immediato a cui sembra condannata ogni scelta politica. I cittadini italiani hanno dimostrato di essere in grado di accettare ogni sacrificio momentaneo purchè dia la certezza di avere migliori condizioni in futuro, soprattutto per le nuove generazioni che sono escluse dal mondo del lavoro – con un tasso di disoccupazione oltre il 40% – e costrette a cercare migliori condizioni di vita all’estero. Mai come oggi interessi di imprenditori e lavoratori hanno coinciso, perché rendita e parassitismi pubblici sono i nemici comuni. Se davvero questa classe politica vuole cambiare il Paese si ponga l’obiettivo di recuperare le 44 posizioni che ci separano, secondo la Banca Mondiale, dalla Germania, tagliando di 30 miliardi le tasse su lavoro e impresa e di altri 35 gli sprechi pubblici. Così si salverà l’Italia. Altrimenti, resteranno solo chiacchiere. Di cui siamo francamente stufi.

Quali i settori su cui investire per rilanciare l’economia del Paese?
Più che di settori produttivi dovremmo parlare di fattori produttivi. Il piano industriale di cui il Paese ha una estrema necessità di dotarsi per sostenere la crescita economica deve abbandonare la vecchia impostazione che vede una separazione fra settori emergenti, come l’ICT o la green economy, e settori più tradizionali, come il metalmeccanico o il chimico, perché oggi le filiere sono strettamente interconnesse e “o si vince tutti o non vince nessuno”. Quello che conta è agire, allora, su elementi trasversali a tutti i settori, per riguadagnare competitività e accrescere la produttività: dalle infrastrutture alla digitalizzazione di territorio e personale, dal costo dell’energia al sostegno alla internazionalizzazione.

L’innovazione come leva per il rilancio del sistema produttivo italiano: un commento…
Bene nella teoria, male nella pratica. Mi spiego: ad un anno dal decreto Passera, che ha istituito il Registro delle start up, le imprese iscritte sono solo 1500. Ossia lo 0,028% delle aziende attive in Italia. Che significa questo, che non si fa innovazione nel nostro Paese? No certamente, ma che abbiamo pensato di regolare la propensione a innovare per decreto, definendo imprese innovative solo quelle con una determinata percentuale di ricercatori sul totale del personale o con una ragione sociale limitata alla produzione e commercializzazione di prodotti e servizi ad alto valore tecnologico. E solo a queste abbiamo riservato agevolazioni per loro costituzione e – comunque pochi – sgravi fiscali per farle crescere e sviluppare. L’innovazione non si stabilisce per decreto ma è il mercato a decidere ciò che è nuovo e funziona, perché risponde a un bisogno finora inevaso dall’offerta, e a premiarlo se funziona. Per questo serve allora agevolare gli imprenditori che decidono di reinvestire gli utili in ricerca e sviluppo nella propria azienda a prescindere dalla ragione sociale, defiscalizzando questi investimenti per renderli più convenienti del risparmio o di acquisizioni immobiliari. Questo aiuterebbe l’innovazione delle aziende e un collegamento virtuoso con le start up che provano a nascere ed espandersi, facilitando anche un affrancamento dalla dipendenza dal credito bancario. Ad oggi, invece, è più conveniente la rendita che la produzione. E lo dimostra il mercato del private equity: il flusso di nuovi fondi in Italia è pari a circa la metà della Germania e un terzo della Francia.

Il peso dell’imprenditoria italiana a livello internazionale.
Restiamo un Paese profondamente industriale, nonostante una contrazione dell’incidenza del manifatturiero sul PIL passata dal 20% al 16%. Nel panorama europeo siamo ancora la prima economia per numero di micro e piccole imprese e la seconda, dopo la Germania, per le imprese di medie dimensioni. C’è ancora un Made in Italy da tutelare e promuovere, soprattutto nella fase in cui ci troviamo, nella quale a fronte di una stagnazione dei consumi interni così profonda che non è più un tabù parlare di deflazione, gli scambi con l’estero, che sono continuati a crescere anche in questi anni bui, sono essenziali non soltanto per tenere in piedi aziende strategiche ma anche in termini di sostegno al reddito. Oggi più che mai, visto che il nuovo scenario economico internazionale che
va disegnandosi, con un ciclo di ripresa congiunturale, vede l’internazionalizzazione delle economie come principale driver dello sviluppo economico. Per questo eventi come l’Expo di Milano sono occasioni strategiche per dimostrare che sappiamo come sfruttare al meglio le potenzialità dell’Italia nel mondo. Ma è certo che una strategia di internazionalizzazione non può essere slegata da un miglioramento generale delle condizioni del fare impresa in italia. Perché se le imprese possono ancora dare molto al nostro Paese, se ogni PMI potenzialmente può diventare un campione nazionale come Luxottica, pensare che una qualsiasi azienda possa, a medio termine, rimanere sana e competitiva nonostante il Paese è una pia illusione.

Un consiglio ai giovani imprenditori.
Non c’è una questione dei giovani. Il problema dell’Italia è quello di animare, in tutti i cittadini, lo spirito giovane che ha fatto il Paese, lo ha spinto fra le sette maggiori economie, ha permesso il miracolo italiano. Dobbiamo aspettarci solo quello che saremo in grado di conquistare con le nostre forze. Vale per i giovani, ma vale per tutti. Per questo è necessario essere preparati, studiare e molto, sapere guardare all’estero ma essere capaci di valorizzare la capacità italiane, e, soprattutto, non perdere il coraggio di rischiare. Perché non c’è futuro, se non si libera l’irrefrenabile forza di chi non ha paura di scommettere, e nemmeno di perdere, perché non ha ancora cominciato a vincere.