MAURIZIO MELIS – Una buona idea  senza propensione  al rischio va poco lontano

MAURIZIO MELIS – Una buona idea senza propensione al rischio va poco lontano

di Dora Carapellese
L’Italia fa pochi investimenti e rischia di lasciare nel cassetto tanti progetti

L’Italia è un Paese con alta capacità di inventiva, ma spesso la realizzazione di un progetto si inceppa nella catena di trasmissione: trascorre troppo tempo dal momento in cui una persona, un team di ricerca o un’azienda concepisce un’idea fino alla sua realizzazione pratica. Oltre alla burocrazia, abbiamo una bassa propensione al rischio che spesso porta piuttosto ad arricchire altri Paesi come gli Stati Uniti o la Germania. Con Melis, una chiacchierata su innovazione, sicurezza e big data.


Innovazione: come descriverebbe questo concetto di cui spesso si abusa?
Appunto. Si abusa spesso di questo termine. Non credo che ci sia una definizione assoluta, anche se intuitivamente tutti riusciamo a comprendere cosa sia. Un po’ come è successo con altre parole, come “smart” o “green”, anche l’innovazione sta diventando un cavallo di battaglia per il marketing, più che un vero e proprio concetto specifico. A mio parere, sarebbe meglio parlare di innovazioni, piuttosto che di innovazione in senso lato. Ovvero novità che una volta introdotte hanno un impatto tangibile sulla realtà di tutti i giorni e riescono a cambiarla. Pensiamo alle app, per esempio: ogni giorno ne vengono lanciate a centinaia, ma sarei curioso di vedere quante di queste risultino davvero utili. Fare una cosa nuova può essere anche facile, in realtà, ma fare una cosa in grado di cambiare il contesto in cui viene applicata è invece molto difficile. Il problema non è inventarsi qualcosa di nuovo, ma qualcosa che possa cambiare il modo di vivere, di lavorare, di muoversi, di viaggiare e così via.

Si può parlare di innovazione in Italia? In che termini e in che ambiti?
C’è un’innovazione prodotta dalle università e dagli enti di ricerca e quella invece proveniente dal mondo industriale. Nel primo caso l’Italia è un Paese capace di grandi risultati e i ricercatori italiani sono tra i più produttivi nel mondo. Il mondo industriale e delle grandi aziende è altrettanto brillante e rispondente. Diciamo che in Italia l’innovazione non manca, ma è altrettanto vero che la catena di trasmissione a un certo punto si inceppa. Trascorre troppo tempo dal momento in cui una persona, un team di ricerca o un’azienda concepisce un’idea fino alla sua realizzazione pratica. Affinché un’idea possa essere pronta per il mercato ed essere messa a disposizione di aziende e utenti, bisogna che ci sia tutto un sistema di supporto che le permetta di essere sviluppata e perfezionata. Se andiamo a confrontare gli investimenti in capitale di rischio fatti in Italia e quelli di altri Paesi europei, la differenza spesso è imbarazzante. Abbiamo una bassa propensione al rischio ed è qui che forse dovremmo migliorare. Altrimenti può accadere che le idee, frutto di investimenti del nostro Paese anche in termini di formazione, rimangano in un cassetto, oppure – come succede spesso – vadano ad arricchire altri Paesi dove questa catena di trasmissione funziona meglio, come in Germania, Inghilterra o Stati Uniti.

Nel suo format Smart City su Radio24 parla di innovazione a più livelli. C’è secondo lei un comune denominatore che lega questi processi di rinnovamento?
Se parliamo di economia e digitale, sì. Oggi ci sono chiaramente trend molto evidenti: termini come “economia circolare”, “sharing economy”, “smart city” e “industria 4.0” sono tutti accomunati dall’essere fondati sulla circolazione dell’informazione all’interno del sistema. Abbiamo sempre avuto una grande capacità di analisi dei dati, ma parecchia difficoltà nel raccoglierli. Adesso la situazione si è capovolta, in quanto riusciamo a immagazzinare e manipolare una quantità enorme di informazioni praticamente in tempo reale. A partire da questa nuova capacità di calcolo, abbiamo potuto cominciare a pensare questi nuovi paradigmi. Faccio un esempio: perché proprio oggi parliamo di condividere le risorse? Potevamo farlo anche prima, magari condividendo il trapano o l’automobile. Perché in realtà condividere non è così facile. Richiede fiducia e soprattutto la capacità di gestire burocrazia e una grande mole di dati.

L’Italia dell’alta tecnologia spesso si scontra con la mancanza di infrastrutture che la sostengano. Cosa ne pensa?
Che la lacuna infrastrutturale più dannosa è proprio a livello finanziario. Come accennavo prima, nel nostro Paese c’è poca propensione al rischio e questo, a mio parere, comporta un rallentamento enorme nella capacità di trasformare una buona idea in un buon prodotto. Per finanziarsi bisogna rivolgersi alle banche, che però fanno un altro mestiere, mentre l’incidenza dei fondi di investimento privati è di gran lunga inferiore rispetto a quanto accade in molti altri Paesi. Tutto questo, a mio parere, ci fa esprimere a livelli inferiori rispetto al nostro reale potenziale. E ci rende molto meno competitivi.

Questo numero è incentrato sull’evoluzione del ruolo dei dati, della loro gestione e tutela: come può coesistere secondo lei la sicurezza delle informazioni in una smart city?
Con le regole. La possibilità di gestire in modo sicuro le informazioni che servono per far funzionare al meglio la città è una realtà. Bisogna però limitarsi a maneggiare soltanto i dati strettamente necessari ed evitare di raccoglierne altri. La stragrande maggioranza delle informazioni utili per gestire i processi che avvengono in una città – dal traffico al consumo di energia, acqua, gas, dai trasporti pubblici all’inquinamento – non necessitano di un nome, cognome, indirizzo o numero di telefono. Anzi, una sovrabbondanza di informazioni rallenterebbe il sistema: pertanto basterebbe integrare tale approccio con regole certe e controlli seri. Ritengo che una concezione di questo tipo non sia assolutamente pericolosa per la nostra privacy. Al contrario, la cosa che colpisce è la facilità con cui, senza preoccuparcene minimamente, mettiamo i nostri dati personali nelle mani di soggetti che, come i social media, non rispondono ad alcuna logica di bene collettivo. Non credo perciò che ci sia un problema strettamente tecnologico, bensì di cultura, nel caso degli utenti, e di regole, per i soggetti che manipolano i dati.

Come si relazionano i concetti di innovazione e sicurezza, invece, nelle imprese?
Credo che il tema della sicurezza debba essere al centro delle decisioni del management: al giorno d’oggi, tutte le aziende, in qualsiasi settore o mercato, sono informatizzate. Di conseguenza hanno la necessità di misurarsi con le problematiche relative alla sicurezza e tale centralità, a mio parere, dovrebbe comportare il coinvolgimento diretto dei vertici aziendali. Troppo spesso, però, si tende a delegare la gestione di questo aspetto vitale ad altri livelli aziendali, magari con poco potere decisionale, rischiando di compromettere in maniera disastrosa il risultato finale.

IoT, Big Data, Mobile: sono i principali trend della digitalizzazione aziendale, fonti di opportunità che allo stesso tempo aprono grandi discussioni in ambito sicurezza e privacy. Come è possibile innovare senza aver trovato tutte le risposte in questi due ambiti?
Probabilmente oggi il tema dovrebbe essere affrontato con una logica diversa rispetto a quella dell’antivirus. Il punto non è dotarsi di barriere per difendersi da eventuali attacchi, o quantomeno non è più sufficiente. È indispensabile pensare a come farsi trovare pronti e a come reagire quando l’attacco ci sarà, perché la domanda non è più se può accadere, ma quando accadrà. Sai cosa farai se dovesse succedere? Ecco, se ci si fa continuamente questa domanda, secondo me vuol dire che si sta facendo tutto il possibile con le informazioni a disposizione – che per forza di cose, purtroppo, non saranno mai complete – per proteggersi al meglio dai rischi. Dopodiché la bacchetta magica non esiste.