MARIO CALVO PLATERO – LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE CHE ANNULLA I POSTI DI LAVORO

MARIO CALVO PLATERO – LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE CHE ANNULLA I POSTI DI LAVORO

Le sfide per l’essere umano secondo Platero, giornalista di Radio 24

Le passate rivoluzioni industriali hanno trasferito il lavoro dalle campagne alle industrie. Oggi l’Industria 4.0 annulla i posti di lavoro e la riqualificazione non basta. Farà più facilmente carriera chi avrà posti dirigenziali e molti lavori verranno sostituiti.

Industria 4.0: la sua visione?
È un elemento di svolta per tutti noi perché, con l’obiettivo di arrivare a una digitalizzazione quanto più completa possibile, le imprese possono in effetti migliorare la loro efficienza e la produttività. E con la digitalizzazione ci sono altre ricadute, per esempio con piccole rivoluzioni in ambiti molto diversi. Come quando sono comparsi i Social Network, che hanno cambiato la comunicazione del messaggio pubblicitario e il tradizionale rapporto tra agenzie di pubblicità e azienda: se come azienda raggiungo un milione di persone con un video promo che mi costa un migliaio di dollari, è evidente che questo cambia il modo di fare pubblicità rispetto al passato. Si sta modificando il modo di condurre i nostri affari. Pensate alla crescita del mercato dei bitcoin. Tutti si chiedono: funzioneranno? Se si pensa che ci sono state alcune emissioni di bitcoin destinate alla raccolta di capitali per startup, questo sviluppo potrebbe spiazzare le banche d’affari e non dare adeguate garanzie di trasparenza agli investitori. L’ingresso dirompente della tecnologia digitale sui mercati dei capitali, da una parte semplifica, perché riduce i costi di accesso in termini di commissione e consente più flessibilità sul piano delle regole; dall’altra rischia di operare in una zona grigia pericolosa per la
trasparenza e per la stabilità dei mercati. Per questo credo che il fenomeno vada controllato: non possiamo imbrigliare in mille regole le banche tradizionali e poi lasciare campo aperto a strumenti che non conosciamo davvero.

Si parla di IoT come di un futuro che ci cambierà la vita, anche se già lo sta facendo in parte. Quali sono secondo lei i paesi più ricettivi a queste tecnologie?
Tutti i paesi industriali dovrebbero essere ricettivi all’IoT. Il mondo intero ne parla e la mia impressione è che il termine abbia un sapore nuovo, creato dalla genialità di qualche marketer, perché la tecnologia è in realtà già nota da tempo ed è già applicata. Qui si parla di allargarne lo scopo. Il concetto è semplice, si collegano fra loro server che lavorano su piattaforme remote e diverse, server che operano in ambienti diversi, per arrivare a collegare quegli stessi ambienti in modo che possano scambiarsi dei dati per lavorare meglio. La rete intranet aveva già questa modalità tecnologica di base. Qui però parliamo di un’applicazione più estesa e più evoluta, pensiamo alle città intelligenti, città dove tutti i server destinati ai servizi pubblici (elettricità, pompieri, ospedali, acquedotti, etc.) sono collegati in tempo reale per ottimizzare il loro lavoro e per migliorare le varie attività di servizio attraverso uno scambio continuo di informazioni.

Qual è la percezione che l’America ha sull’Italia su questi aspetti?
Generalmente l’America non si occupa troppo dell’Italia, a meno che non ci sia qualcosa di eclatante come il cambiamento di un governo. Interessa naturalmente il nostro mercato e se ci sono delle opportunità gli investitori americani cercano di coglierle anche sul piano dell’innovazione tecnologica. Ma un’azienda che lavora con l’Italia continua ad essere molto scettica sulla flessibilità italiana, perché, nonostante le riforme, certe rigidità restano. Abbiamo un sistema giuridico non garantista che scoraggia chi dall’estero vuole fare business in Italia. Detto questo ci sono delle aziende che investono per colmare dei gap. Come Linkem, una società che nasce da una finanziaria americana guidata da un personaggio celebre, l’ex capo di Shearson Lehman, Peter Cohen. Linkem, con la propria tecnologia, coprirebbe potenzialmente molte aree sperdute, magari collinose o montagnose dove è difficile far arrivare la fibra ottica. Prendiamo una grande banca italiana con centinaia di succursali in cittadine o paesini dove Internet è ancora instabile o addirittura non è arrivato: poter offrire una rete veloce risolve un problema.

La tecnologia va avanti lo stesso senza una politica adeguata?
La tecnologia si sviluppa in maniera autonoma, ma sono necessari anche dei progetti di politica industriale e finanziaria per agevolarne la diffusione. I ragazzi italiani che sono alla Silicon Valley, per esempio, son lì perché in Italia non trovano un ecosistema adatto alla raccolta di fondi con la stessa facilità con cui capita in America. Allo stesso tempo ci sono dei piccoli geni italiani che diventano delle celebrità, perché dall’Italia studiano dei sofisticati programmi anti hackeraggio: ci sono delle realtà, come il politecnico di Torino e quello di Milano, che riescono a produrre degli ingegneri molto bravi, che stanno cercando di replicare il modello americano, ovvero quello che prevede il coinvolgimento dei privati come partner delle università. Dov’è il collegamento con la politica? Siccome noi abbiamo un sistema super centralizzato, le università sono sottoposte ad un controllo appunto centrale e non è automatico poter ottenere dei fondi privati in modo diretto. Molta burocrazia ancora esiste ed è limitante. La politica deve intervenire cercando di capire innanzitutto quali sono le barriere all’ingresso che rallentano il processo.

Interconnessione tra tutti e tutto: è davvero uno sviluppo positivo?
Dal punto di vista dell’azienda sicuramente sì, anche se ci sono molte riserve per il rischio di ricadute, ad esempio sul consumatore. Fiat Crysler può derivare vantaggi produttivi da un sistema di scambio dati, diciamo, con la catena di produzione della General Motors. Mi chiedo però: fino a che punto può essere utile scambiare informazioni? C’è la questione della riservatezza dei dati, della concorrenza e il rischio che un hacker in un colpo solo possa mettere in crisi l’intero sistema informatico di due aziende contemporaneamente! L’azienda è davvero interessata a rendersi vulnerabile? Altro esempio di vulnerabilità digitale: come sappiamo le auto oggi possono essere controllate da un sistema centrale che può aiutare ad esempio ad aprire le portiere se dimentichiamo le chiavi in macchina. Molto utile. Però nel 2015 due hacker hanno penetrato il sistema digitale della Jeep e hanno preso il controllo di una vettura agendo su freno, sterzo e acceleratore in remoto: erano d’accordo con un giornalista di Wired per dimostrare certe vulnerabilità e la Jeep ha dovuto richiamare oltre un milione di auto per rimediare gli errori.

Se consideriamo un punto di vista più macro?
Lo sviluppo tecnologico aiuta l’azienda, ma diminuisce i posti di lavoro. A differenza di altre rivoluzioni industriali che trasferivano il lavoro dalle campagne all’industria, oggi l’innovazione tecnologica corre molto più rapida dell’adeguamento della forza lavoro alle nuove realtà produttive e molti posti di lavoro a buon reddito spariscono. Questo crea sperequazione dei redditi, c’è una classe dirigenziale che sta meglio, un gruppetto di super ricchi ai vertici e una classe media che sta sempre peggio. Il fenomeno si è amplificato con la combinazione della crisi finanziaria, con un forte impulso innovativo proprio a cavallo degli anni 2007/2009. Questo si è tradotto in uno scontento per buona parte dell’opinione pubblica che usa i Social Network e sfrutta sensazionalismo e fake news. C’è una sfida alla trasparenza del dibattito politico democratico e una sfida alle stesse democrazie con l’emergere del populismo e del nazionalismo.

Come vede l’evoluzione dell’essere umano nell’era dell’IoT?
Ci sono delle sfide che vanno risolte, perché l’applicazione dell’IoT crea disoccupazione e sottoccupazione. Se la tecnologia digitale, l’intelligenza artificiale e la robotica arriveranno a sostituire persino un barbiere, non potranno mai sostituire quegli elementi di empatia, di relazione umana e di emotività e calore che ci contraddistinguono come società. Secondo i futurologi un recupero di posti di lavoro potrebbe avvenire attraverso il settore “non profit”, che in America è già un settore che vale circa 1.700 miliardi di dollari e occupa quasi il 10% della forza lavoro. Non solo volontariato, dunque, ma un vero e proprio lavoro in un settore dove le caratteristiche innate dell’essere umano sono indispensabili e insostituibili.