Made in Italy da esportare: la vera rivoluzione italiana
Professore di Economia e gestione delle imprese e Strategia d’impresa presso l’Università LUISS “Guido Carli” di Roma, Paolo Boccardelli spiega come la creatività italiana sia anche sinonimo di innovazione continua e ricerca. Valori da non perdere, anzi da sostenere soprattutto nell’export.
Economia italiana, Made in Italy e innovazione: come si intrecciano questi grandi temi? Qual è la situazione italiana?
Il Made in Italy è certamente uno degli asset più importanti della nostra economia, ciò che più ci rappresenta nel mondo. Made in Italy è sinonimo di creatività, eccellenza qualitativa, design esclusivo e life style. Il modello produttivo del Made in Italy per sua stessa natura privilegia la piccola e media impresa, se non addirittura la micro impresa, realtà imprenditoriali sparse su tutto il territorio italiano e spesso riunite in cluster o distretti. La maggior parte delle nostre eccellenze manifatturiere non proviene solo da settori tradizionali, quali il tessile o il calzaturiero, ma arriva anche dalla meccanica e dai mezzi di trasporto, dalle macchine per lavorare il legno e le pietre ornamentali, agli strumenti per la navigazione aerea e spaziale. Numeri alla mano, il successo del Made in Italy, nonostante la crisi, dimostra quanto le nostre imprese siano state in grado di conservare competitività nel mercato globale senza perdere la capacità di creare bellezza. Proprio perché non crea valore dalla quantità ma dalla qualità, Made in Italy è anche sinonimo di innovazione continua e ricerca. È infatti l’innovazione che ha permesso in questi anni
alle imprese italiane di conservare la propria leadership di mercato. A tal proposito occorre però sottolineare che non incontri con sempre le innovazioni e gli sforzi produttivi compiuti dalle nostre imprese sono stati supportati da altrettanti sforzi dal punto di vista legislativo ed infrastrutturale.
Ci può dare dei dati per fotografare la situazione italiana?
L’Italia è entrata nel 2014 dopo aver perso l’8,8% del prodotto interno lordo rispetto ai livelli pre-crisi (3 punti dalla nascita dell’euro 15 anni fa). C’è un robusto nucleo di imprese che innovano e si espandono all’estero ma il 15% del nostro potenziale produttivo è andato perso. Nel 2013 le domande di disoccupazione sono aumentate del 32,5% e a novembre scorso c’è stato un nuovo record dei disoccupati al 12,7%, vale a dire che più di 4 giovani su dieci non trovano lavoro. Nonostante tutto il rapporto “Industria e Filiere 2013” del centro studi Prometeia parla di grandi miglioramenti per il prossimo biennio. Il rapporto analizza il posizionamento competitivo e le prospettive a breve e medio termine di 13 filiere produttive dell´industria italiana, articolate lungo 5 fasi della catena del valore (sourcing, prime lavorazioni, lavorazioni intermedie, prodotti finali e distribuzione).
Sono molto buone le previsioni di recupero – +6% nel biennio 2014-2015 – per 8 filiere su 13 e di ritorno alla redditività. Ci si aspetta inoltre un aumento nelle esportazioni: sempre nel bienno
2014-2015 le esportazioni a prezzi costanti dovrebbero crescere in media al 4%, i fatturati del 2%. E i numeri sul disavanzo della bilancia commerciale sembrano confermare tale andamento.
Si può ancora parlare di una industria Made in Italy forte?
Mentre la prolungata crisi si sta abbattendo con forza sulla nostra economia interna, riducendo il reddito a disposizione delle famiglie che si sono sempre più impoverite in questi anni, dal
nostro export arrivano segnali incoraggianti che fanno sperare in una ripresa e messa in moto delle energie di questo Paese.
Guardando senza pregiudizio e con un pizzico di attenzione in più, ci accorgeremmo che l’Italia sa essere innovativa, versatile, creativa, reattiva, competitiva e vincente, soprattutto sui mercati
globali. Questo dimostra che, nonostante la crisi, l’Italia ha ancora un sistema industriale forte, in grado di generare valore aggiunto e che ha resistito alla terziarizzazione dell’economia in atto in tutta Europa. È necessaria però una profonda ristrutturazione del sistema Paese nel suo complesso, con provvedimenti economici e fiscali forti, al fine di preservare il tessuto industriale ed imprenditoriale italiano, che è oramai allo strenuo delle forze.
Si parla dell’industria creativa per il rilancio del sistema produttivo italiano. Cosa ne pensa?
Di questo tema in Italia si parla molto ma ben poco è stato fatto. È invece intervenuta in maniera significativa la Commissione UE con un piano di sostegno a livello nazionale ed europeo che mette in campo misure volte ad agevolare l’accesso ai finanziamenti, rafforzare la competitività, ampliare le esportazioni e consolidare i legami con le altre industrie, utilizzando in maniera strategica
gli 1,8 miliardi di euro stanziati per il prossimo programma “Europa creativa” (2014-2020). L’industria creativa infatti – che comprende architettura, artigianato artistico, patrimonio culturale,
design, festival, moda, cinema, musica, arti dello spettacolo e arti visive, biblioteche, editoria, radio e televisione – impiega 8,5 milioni di persone in UE e rappresenta il 4,5% del PIL, fornendo
un importante contributo agli altri settori, in cui l’innovazione è guidata sempre di più dalla creatività e dal design. Eppure, proprio le imprese creative incontrano difficoltà ad attirare gli
investimenti necessari per convertirsi alle tecnologie digitali, un elemento essenziale per ridurre i costi di produzione e accedere ai nuovi mercati.
A suo avviso quali sarebbero le politiche necessarie a sostegno delle eccellenze italiane?
Defiscalizzazione degli investimenti e del lavoro, incentivi per Ricerca & Sviluppo, sburocratizzazione e digitalizzazione, oltre che abbassamento dei costi energetici per i produttori. E poi supporto alle reti di impresa oltre che alla collaborazione tra filiere. Non dimentichiamoci inoltre dell’accesso al credito: la Banca Centrale Europea (BCE) ha voluto in tal senso dare un forte segnale abbassando i tassi d’interesse – e quindi il costo del denaro – al minimo storico, nonostante la possibilità che si innescassero dinamiche deflazionistiche. Procede verso questa direzione Destinazione Italia, il pacchetto pro-crescita che contiene una serie di facilitazioni fiscali che dovrebbero consentire il decollo definitivo dei mini-bond e delle altre forme di finanziamento diretto, anche attraverso emissioni azionarie, alle piccole e medie aziende. Il 2014 potrebbe quindi segnare l’inizio del finanziamento extra-bancario alle PMI, con l’impegno diretto dei grandi intermediari istituzionali – gruppi del risparmio gestito e assicurazioni – nel finanziamento a favore della nascita e dello sviluppo di nuove avventure imprenditoriali.
Industria e innovazione: a che punto siamo? Sono stati fatti investimenti importanti nel Paese in questi anni?
È proprio perché non sono stati fatti grandi investimenti che ci troviamo nella situazione attuale. Buone iniziative sono tuttavia il patto siglato ad inizio dello scorso anno tra Confindustria e
CNR, le iSrl, l’Agenda Digitale e i bandi per le Smart Cities. L’accordo tra Confindustria e CNR ha come obiettivo quello di generare un’osmosi di best practices fra le imprese. I punti essenziali: lo sviluppo di cluster tecnologici e di attività di ricerca di eccellenza anche per attrarre investimenti ed il potenziamento degli strumenti per rafforzare il trasferimento tecnologico. Altro tema è la definizione di modelli efficienti di gestione della proprietà intellettuale. Le due realtà stanno inoltre lavorando all’integrazione della Mappa delle Competenze in R&I realizzata da Confindustria con l’analisi delle competenze presenti all’interno del CNR, che permetterà di avere un primo importante strumento di definizione di un sistema di analisi dei territori fondamentale per individuare le specializzazioni richiamate dalle nuove politiche di Europa 2020. Quello italiano, non dimentichiamolo, è un contesto sfavorevole allo sviluppo di iniziative imprenditoriali per diversi motivi. Tra questi è utile citare la non ancora adeguata presenza di istituzioni finanziarie che agevolino lo sviluppo e la crescita; la carenza delle infrastrutture tecnologiche a disposizione; la bassa integrazione rispetto a un tessuto di operatori hi-tech; la limitata possibilità di garantire ai neo imprenditori attraverso l’enforcement giuridico e legislativo la salvaguardia dei propri diritti di sfruttamento economico della proprietà intellettuale (si pensi a tale proposito al tema della protezione dei brevetti, delle licenze e dei marchi). Forme di semplificazione come la iSRL, ovvero una nuova forma di società riservata agli under 35 che potrà essere costituita interamente online con solo 1 euro e la semplice comunicazione alla camera di commercio, sono le benvenute. Quindi Innovitalia.net, punto di incontro tra ricercatori di tutto il mondo; Agenda Digitale che rappresenta l’applicazione di uno dei filoni della strategia Europa 2020 per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva; le misure introdotte per lo sviluppo della Smart Cities; Destinazione Italia ossia il piano del Governo per rilanciare l’impresa italiana; la creazione di un Fondo dei Fondi sull’esperienza del fondo Yozma Israeliano, che capitalizza l’intervento pubblico e si propone come interlocutore nei confronti degli investitori istituzionali svolgendo quindi il ruolo di “fundraiser istituzionale”, ed anche l’emendamento al Decreto del Fare con cui il Governo vara finanziamenti e agevolazioni pubblici anche per le PMI che acquistano servizi e prodotti informatici. Queste iniziative, tuttavia, devono essere perseguite con maggiore decisione e impegno per allineare l’Italia ai migliori benchmark internazionali.
In generale in Europa, ma soprattutto in Italia in questoperiodo di crisi sono in maggior sofferenza la PMI.L’innovazione è la carta fondamentale per farle crescere?
Le piccole e medie imprese hanno nella manifattura il loro punto di forza e di debolezza. Non si può più pensare di competere con un gigante come la Cina, piuttosto che la Corea o il Vietnam
che sono in grado di produrre milioni di pezzi in più ad un costo più che dimezzato. È quindi indispensabile puntare su beni di media-alta gamma, che possano giustificare il prezzo più alto con un valore aggiunto nettamente più elevato rispetto al prodotto di massa. Qui entrano in gioco l’innovazione, la creatività, l’abilità di portare sul mercato un unicum non replicabile.
IT e ICT: indispensabili per sopravvivere sul mercato nazionale, e ancor più quello internazionale…
Cito i servizi cloud tanto per fare un esempio. Il ritmo di crescita della loro diffusione nelle aziende italiane continua ad essere molto sotto la media mondiale ed in Europa solo la Spagna ha livelli più bassi dei nostri, nonostante una timida inversione di tendenza registrata negli ultimi mesi (+11% gli investimenti nel cloud, a fronte di una spesa in IT che decresce mese dopo mese). Se poi l’analisi si allarga alle PMI, il risultato è piuttosto scarso. Le grandi imprese nazionali rischiano soprattutto quando si parla di infrastruttura ma lo fanno sempre con minore entità rispetto ad altri paesi. Quello che manca non è solo il capitale, o l’incentivo, le imprese difettano in questo momento di quel tanto di propensione al rischio fondamentale in qualsiasi attività imprenditoriale.
Secondo Lei manca informazione e formazione nelle aziende circa l’innovazione? Quale istituzione dovrebbe promuovere una maggiore conoscenza?
Siamo di fronte ad un corporate dilemma: le aziende sono potenzialmente molto interessate alla formazione e informazione del loro personale, qualunque sia il livello nell’organizzazione, ma
temono che questo possa poi lasciare l’azienda stessa e mettere a frutto queste competenze altrove. Nemmeno è da sottovalutare il fatto che, la contrazione dell’economia, ha spinto molte aziende
a ridurre i budget dedicati alla formazione, decurtando i fondi destinati. Non esistono in tal senso vere e proprie istituzioni che possano promuovere o portare la formazione in azienda poiché ognuna di esse ha una storia, un modus operandi e un’organizzazione verso cui la formazione stessa dovrebbe tendere e non imporsi dall’esterno. È piuttosto una questione di cultura aziendale stessa e di interazione tra azienda e poli della formazione e, in questo senso, le istituzioni possono far molto favorendo l’incontro tra impresa e università, defiscalizzando la formazione e promuovendo una cultura dell’incentivo all’aggiornamento. Si tratta di far crescere il personale qualitativamente e non solo quantitativamente.
Ci parla del concorso di Confindustria nazionale dedicato al Made in Italy, che la vede dentro il comitato scientifico? Qual è l’obiettivo finale del concorso?
Il Confindustria Awards for Excellence, cui partecipo con molto entusiasmo con altri colleghi, ha come obiettivo finale quello di individuare e valorizzare le eccellenze del territorio che sono riuscite, tramite l’innovazione, a proiettarsi con successo sui mercati esteri allo stesso tempo mantenendo con il territorio un forte legame sociale ed economico. Si tratta di aziende che non
esistono solo passivamente ma creano valore economico ed umano intorno a sé.
Infine, si può parlare ancora di dinamismo imprenditoriale in Italia? Come aiutare i giovani imprenditori ad avere formazione e conoscenza, oltre a una buona idea?
Anche l’Italia, forse più entusiasticamente che altrove, è partecipe del fenomeno Start up nonostante gli incubatori e i business angels siano ancora molto pochi. LUISS, in questo senso, fa molto attraverso il suo incubatore LUISS Enlabs. L’aumento delle iscrizioni alle Camere di Commercio e delle partite IVA segna un punto a favore dell’imprenditorialità, parallelamente alla crescita
nelle aperture di nuove attività commerciali. È altrettanto vero che ogni anno, soprattutto nel 2012 e nel 2013, le attività che hanno chiuso i battenti sono state più numerose che mai, indice di una tendenza che se da un lato evidenzia la crisi, dall’altro mette in luce una rinata voglia di self-entrepreneurship soprattutto da parte dei giovani che non trovano più collocazione su un mercato
del lavoro rimasto statico nonostante i cambiamenti repentini e drastici avvenuti in tutto il mondo. Bisogna inoltre favorire, e molto, il dialogo tra i provider dell’educazione e le imprese. È di qualche giorno fa la presentazione del rapporto McKinsey “Il viaggio tempestoso dell’Europa, dall’educazione all’occupazione”, secondo cui ben il 47% dei datori di lavoro italiani riferisce che
la propria azienda è danneggiata dall’incapacità di trovare i giusti lavoratori. In nessun altro Paese europeo la percentuale è così alta. Segno di una mancanza di comunicazione tra la domanda e l’offerta, tra i giovani e le aziende, che si traduce in spreco evidente di capitale umano e punti percentuali di Pil.