Luca La Mesa – Social network, vita morte e miracoli
Qualità e quantità, due variabili imprescindibili
Un presente pregnante di social media lascia presagire un futuro in cui inevitabilmente si perderà qualcuno strada facendo. Chi riuscirà a sopravvivere? Chi riuscirà a mantenere sempre più alto il valore aggiunto verso gli utenti e i minuti che si passano dentro la piattaforma. E l’azienda? I brand dovranno pubblicare meno spesso ma contenuti di qualità. Un viaggio con Luca La Mesa, Social media manager che ha fatto dei social media la sua professione.
Da specialista della comunicazione e di social network, qual è stato il tuo percorso di evoluzione?
Il mio percorso è stato particolare. Ho iniziato lavorando nel Marketing di Procter&Gamble e Unilever per poi specializzarmi sui nuovi media. Proprio mentre lavoravo sul brand Dove in Unilever compresi che i social media avrebbero cambiato il mondo delle agenzie di comunicazione. I social sono in continua evoluzione e sono convinto che i risultati migliori si possano ottenere solamente impegnandosi ad aggiornarsi in maniera continuativa. Decisi dunque di uscire da Unilever per aprire un’agenzia specializzata principalmente in gestione di strategie avanzate di social media.
I social riescono indubbiamente ad amplificare la risonanza di eventi, prodotti e aziende. Usarli tutti è una strategia doverosa per l’azienda? Quale consiglio vuoi dare per un uso consapevole ed efficace dei social media?
Assolutamente no. Non bisogna tassativamente essere su tutti i social network. Questo approccio spesso induce ad impostare degli automatismi di auto-pubblicazione su più canali che possono generare seri danni. Ciascun social è come se fosse una “lingua” diversa e bisogna presidiare solo quelli che ci danno, numeri alla mano, i migliori risultati nel dialogare con il nostro target. Spesso è meglio essere presenti su un numero inferiore di canali, ma con una presenza di qualità maggiore.
Come faccio a sapere se la mia strategia funziona?
È la domanda che tutti dovrebbero porsi, ma alla quale non sempre si è in grado di rispondere. I social media hanno due grandi vantaggi rispetto ai media tradizionali. Una barriera all’ingresso molto bassa per sperimentare le prime campagne a pagamento e una grandissima capacità di profilazione del target. Queste due caratteristiche ci permettono di fare molti esperimenti anche con budget ridotti e raccogliere un gran numero di dati e metriche da poter analizzare. Una frase che ripeto spesso ai miei studenti è “Non c’è niente di migliorabile se non è misurabile”. Se la strategia funziona devono dircelo i numeri. Spesso si fa l’errore di impostare degli indicatori KPI (Key Performance Indicator) che vengono definiti “Vanity Metrics”. Sono delle metriche che servono semplicemente a “farci belli”, ma che non rappresentano realmente se una strategia sta funzionando. L’errore classico è quello di dare troppo peso al “numero di fan” su Facebook. I fan sono importanti, ma chiunque opera su questo canale sa bene che, pur avendo molti fan, solo una piccola percentuale di essi vedrà organicamente (gratis) i nostri contenuti. Dire dunque che nello scorso trimestre la strategia ha funzionato perché sono cresciuti del 30% i fan probabilmente è segnale di un problema di comprensione del mezzo. Appena uscito dall’Università ero convinto che il marketing fosse “creatività”, che avremmo dovuto ideare nuove campagne sempre più creative. Dopo pochi giorni in P&G notai come la maggior parte dei Brand Manager fossero in realtà ingegneri che passavano buona parte del loro tempo a interpretare dati per valutare le performance delle loro strategie.
La viralità è una delle parole più ambite in questo momento: per un’azienda è meglio la viralità o un contenuto di valore?
I due aspetti sono fortemente legati. I social sono ormai diventati dei “paid media”, cioè dei canali a pagamento. Si possono fare moltissime attività gratis, ma il vero vantaggio lo si ha quando si attiva la parte pubblicitaria.
Bisogna dunque educare i clienti ad avere sempre due budget distinti. Il primo budget lo definisco la “qualità”, ed è quello che ci permette di studiare le migliori strategie e i migliori contenuti. Il secondo budget lo chiamo la “quantità” e risponde alla domanda “quanto vuoi che i tuoi contenuti vengano visti?”. Se si investe tutto in qualità è come se avessimo una bellissima rivista ma senza nessuna copia stampata. Se investissimo tutto in “quantità” rischieremmo di far arrivare a decine di migliaia di persone un messaggio di scarsa qualità. L’equilibrio come sempre è al centro e se puntiamo alla viralità sicuramente dobbiamo avere un’idea originale, un contenuto di qualità ma anche una capacità iniziale di “accendere la miccia” per farle fare velocemente i primi passi sulle bacheche degli utenti in target. Saranno poi loro a condividerlo molte volte per renderlo virale.
All’interno di un oceano di contenuti qual è il modo migliore per farsi pescare?
Nel futuro sono convinto che i brand dovranno pubblicare meno spesso, ma contenuti di qualità maggiore. La vera difficoltà è ottenere “attenzione” in un mondo pieno di stimoli. Ogni due giorni stiamo creando tanti contenuti quanti ne ha creati l’uomo dall’origine dei tempi al 2003 (5 Exabites di contenuti ogni 48h). Questo, come potete immaginare, ha due implicazioni. La prima è che è molto più difficile anche solo apparire organicamente (gratuitamente) sul newsfeed degli utenti Facebook data la grande competizione di contenuti a disposizione. La seconda è che, al crescere dei contenuti che tutti noi creiamo, sta calando la qualità degli stessi. Per emergere in questo oceano di contenuti la strategia migliore è dunque puntare su contenuti di qualità maggiore e impostare una minore frequenza di pubblicazione. In questo modo quando avremo l’attenzione dell’utente lui sarà molto più interessato a noi e non vedrà l’ora di vedere i nostri futuri contenuti o andrà nella nostra pagina per vedere quelli passati.
Quali sono i social media che secondo te sono destinati a “morire” e quali quelli che invece hanno un futuro prospero? Da cosa dipende ciò?
Quando andavo all’università ci dicevamo che per avere successo avremmo dovuto avere un’idea. Avremmo dovuto inventare, ad esempio, il nuovo sito per raccogliere i video (YouTube) o per affittare la propria casa (Airbnb). Oggi non siamo più nell’era delle idee, ma dell’Execution. Le idee non bastano ma il mercato prende il primo che le realizza su grande scala. Ciò ha un enorme impatto sul futuro dei social media e di molte app. In pochi sanno che anni fa Facebook stava per essere acquistato da Yahoo. Proprio all’ultimo Mark si tirò indietro e nel tempo Yahoo ha iniziato a calare di valore. In quella storia Mark ha imparato qualcosa di importante. Non importante quanto tu sia grande, prima o poi potresti calare rapidamente e anche chiudere. La tecnologia ci dà moltissimi esempi in questa direzione. Quello che Facebook sta facendo per “non morire” è una strategia molto ben studiata. Sapendo che il futuro potrebbe non essere “facebook come lo conosciamo oggi” ha deciso di acquistare tutti i futuri trend. Dal 2004 al 2014 ha speso in acquisizioni una cifra paragonabile al PIL dell’Uganda (22 miliardi di dollari). Ha comprato prima Instagram, poi WhatsApp, poi Oculus e decine di altre società. Quelle che non è riuscita a comprare, come ad esempio Snapchat, le sta provando ad imitare (ad esempio con le Instagram Stories e le Facebook Stories) proprio sfruttando ciò che dicevamo sopra, che in alcuni ambiti non contano le idee ma chi le realizza su grande scala. Proprio in questi giorni una startup italiana ha vinto un primo round legale dimostrando che Facebook abbia quanto meno preso spunto da un’idea che loro gli avevano proposto e che aveva rifiutato, salvo poi lanciare pochi mesi dopo qualcosa di simile. Rimarranno dunque i social che riusciranno a mantenere sempre più alto il valore aggiunto verso gli utenti e i minuti che essi passano dentro la piattaforma.