L’ITALIA DELL’INDUSTRIA: PMI E “MULTINAZIONALI TASCABILI”

L’ITALIA DELL’INDUSTRIA: PMI E “MULTINAZIONALI TASCABILI”

“L’industria è centrale, e speriamo lo rimanga a lungo: esportiamo di tutto, ed in tutto il mondo; l’export italiano è molto diversificato, dalle macchine utensili ai vini, dalla moda agli elicotteri, ed ha tenuto anche negli anni di crisi. Ma non è più l’industria in bianco e nero, dei cancelli che si chiudono il primo di agosto, delle ciminiere e delle assemblee operaie”. A darci uno quadro della realtà italiana di questo periodo Nando Pagnoncelli, presidente di Ipsos Italia.

Si può parlare ancora di modello italiano di sviluppo? Ci può dare qualche dato…
Difficile da dire, spesso si parla dei modelli sempre dopo, quando le cose sono accadute. Siamo certamente in una fase di passaggio, in cui sono sempre presenti i punti di forza tipici della produzione italiana, ossia creatività e qualità, ma si avverte una crescente difficoltà a fare impresa, a causa della burocrazia, della disomogenea disponibilità di accesso al credito, di un mercato del lavoro che non è efficiente. I due elementi che più degli altri stanno modificando la struttura italiana sono legati entrambi alla domanda interna: la costante riduzione di investimenti pubblici, causa di spending review e patto di stabilità, e la razionalizzazione del consumo delle famiglie. Incidono pesantemente sulla struttura produttiva del Paese, modificandola e spostando l’attenzione delle imprese sempre più verso i mercati esteri, se possibile.

L’industria è ancora centrale nel modello economico italiano? Grande industria o PMI?
L’industria è centrale, e speriamo lo rimanga a lungo: esportiamo di tutto, ed in tutto il mondo; l’export italiano è molto diversificato, dalle macchine utensili ai vini, dalla moda agli elicotteri, ed ha tenuto anche negli anni di crisi. Ma non è più l’industria in bianco e nero, dei cancelli che si chiudono il primo di agosto, delle ciminiere e delle assemblee operaie. Questo può sembrare ovvio, ma nel percepito di molti italiani l’industria è un corpo quasi estraneo alla società; nell’immaginario collettivo ha perso centralità economica, sociale e politica. L’industria oggi in Italia è fatta sostanzialmente da PMI, da “multinazionali tascabili”. Le grandi industrie con sede in Italia, pur essendo eccellenze, si contano su poche dita, e molte di esse sono di derivazione pubblica. Quindi l’industria è ancora centrale, anche se preoccupano due elementi: l’abbandono di molte multinazionali, che lasciano il Paese o ridimensionano la loro presenza; la mancanza di una politica industriale che rimanga coerente per un sufficiente lasso di tempo da poter produrre effetti.

PMI e internazionalizzazione: come si presenta la situazione italiana? Qualche dato in merito…
Ho già detto dell’importanza dell’export; infatti Ice e Istat, nel fotografare il 2013, tracciano un quadro sostanzialmente positivo. La quota di mercato italiana sull’export mondiale nel 2013 è al 2,79%, in aumento rispetto al 2,74% del 2012.
Il saldo attivo della bilancia commerciale è stato di 30,4 miliardi, il dato più elevato nel decennio 2004-2013; non bisogna dimenticare che importiamo soprattutto energia, per cui al netto dei prodotti energetici, il saldo raggiungerebbe 84,8 miliardi. Ed aumentano le aziende italiane che esportano: nel 2013 sono state 211.756, l’1,3% in più dell’anno precedente.

La logica della rete potrebbe aiutare maggiormente le PMI, soprattutto sul mercato estero?
Data la cronica mancanza di grandi aziende, e la difficoltà del mercato interno, non sorprende che si stiano affermando i ‘microesportatori’, con un fatturato all’export inferiore a 75mila euro, che sono chiaramente PMI. La sensazione però è che si proceda più in ordine sparso, sfruttando le nuove tecnologie e alcune relazioni, non sembra esserci una vera strategia che sia basata su rete tra PMI volte all’esportazione, questa francamente sembra mancare. E sarebbe necessaria, infatti la mancanza di grandi aziende, che danno la linea alla filiera e sono di esempio, obbligherebbe tutti ad essere più responsabilizzati e consapevoli. Ma ancora notiamo una grande difficoltà da parte delle PMI nel consorziarsi e nel ragionare insieme, con progetti di mediolungo periodo che possano portare anche alle fusioni. Resta poi da sottolineare che la loro taglia limitata le rende relativamente appetibili per i grandi fondi di private equity, ed il private equity domestico ha ancora molti spazi di crescita per poter offrire alle PMI risorse e managerialità adeguati, che sarebbero fondamentali per trasformare l’internazionalizzazione in un processo strategico, di lungo periodo, e non in una tattica per fronteggiare la crisi.

Innovazione: come siamo messi? Da cosa partire per innovare maggiormente le eccellenze italiane? Qualche dato…
È un tema vasto. Iniziamo a dire che le aziende italiane innovano ma brevettano poco… è un vecchio tema. Infatti, come ha rilevato l’Istat, l’Italia si distanzia notevolmente dai Paesi Europei più avanzati come investimenti in ricerca e brevettazione, inoltre il peso economico nei settori ad alta tecnologia è ridotto, pur rimanendo un Paese molto propenso all’innovazione: quindi non la si crea, e se la si crea la si nasconde, ma la si adotta. È anche vero che ormai nel mondo attuale conta molto di più arrivare tra i primi che non brevettare. Sull’innovazione ci sarebbe comunque molto da dire, è un tema molto ampio ormai nella vulgata giornalistica troppo connesso a tecnologia: le aziende italiane hanno l’innovazione nel proprio DNA, sia come innovazione di processo, sia di prodotto, sia di mercato. Se c’è un elemento che manca, sono le risorse per la ricerca di base: gli investimenti in ricerca – sia pubblici che privati – che ci vedono molto lontani dai più importanti Paesi industriali. Bisogna però dire che ultimamente si vede un forte dinamismo pubblico e privato volto a sostenere e far sviluppare le start-up, penso alla crescita di incubatori e al recente ‘Business Angel Club’, un network di investitori e imprenditori per sostenere le startup e l’innovazione nel Sud Italia. Una bella iniziativa in cui gli imprenditori donano parte del loro tempo, competenze, risorse per lo sviluppo del Sud, cruciale per un Paese come il nostro. Penso anche alle iniziative come Telentgarden, h-farmventures, o all’open campus di Tiscali.

La crescita italiana nell’ultimo anno e nel futuro?
Nell’ultimo anno la crescita non è pervenuta. Si spera nel futuro ma ormai non ci si azzarda a fare più previsioni. È comunque irrealistico pensare ad una crescita indotta solo dall’export o da una singola iniziativa. Devono aumentare i consumi domestici, quindi la spesa delle famiglie, gli investimenti delle imprese, e la dotazione di infrastrutture pubbliche utili. E soprattutto deve ripartire la fiducia nel fatto che questo Paese può e deve farcela. Senza fiducia, si sta come d’autunno…

Siamo a rischio reale di commissariamento da parte dell’UE?
Non credo, il clima in Europa è cambiato, inoltre, per quanto riguarda l’Italia, il Governo ha messo in cantiere importanti interventi di politica economica e di riforma del mercato del lavoro, che a breve dovrebbero dare i loro frutti. In generale un commissariamento è necessario nell’emergenza, e questa è comunque passata: nella fisiologia, sia pur della crisi, è importante che la situazione venga presa in mano da tutti, ma in particolare dalla politica, che in un grande Paese democratico è chiamata a mediare tra le esigenze dei cittadini di breve e di lungo periodo, ed a trovare soluzioni. L’Unione Europea è un ausilio ed un ombrello importante, esercita un utile ruolo di controllo, ma è bene non nascondersi dietro ad essa ed affrontare con serietà i problemi nazionali.

Secondo Lei, qual è il problema maggiore che ha impedito e sta impendendo ai Governi avvicendatisi di riassestare i conti italiani?
Ah, saperlo! Diciamo che non ha aiutato avere così tanti governi in pochi anni, specie in una situazione complessa sullo scenario economico internazionale. Governi troppo deboli forse per affrontare sfide impegnative, e per garantire a tutti la continuità in una gestione, per riuscire a far valere le proprie istanze. Non voglio dire che serva la governabilità a tutti i costi, ma l’ingovernabilità è una vera iattura, specie in un momento di crisi.

Quali le politiche necessarie per aiutare il sistema produttivo italiano e riprendere slancio?
Le imprese chiedono da anni due cose, e lo rileviamo quasi quotidianamente nelle nostre indagini: in primo luogo un sistema fiscale più leggero, meno punitivo verso chi è grande ed assume, e su questo punto il governo ha preso decisioni importanti sull’IRAP. In secondo luogo maggiori risorse finanziarie da parte del sistema bancario, e su questo aspetto si spera che l’iniezione di liquidità pensata dalla BCE possa dare il proprio frutto ed arrivare alle imprese. Aggiungerei altre due iniziative: serve una riforma seria, a tutto tondo, del mercato del lavoro in cui l’ottica sia volta a favorire il lavoro, piuttosto che a salvaguardare a tutti i costi lo status quo, una riforma che ponga al centro il lavoratore, da stimolare e tutelare, e l’impresa, e non il posto di lavoro. Inoltre dobbiamo ridare fiducia al cittadino-consumatore, senza una ripartenza della domanda interna difficilmente si potrà dare uno ‘slancio’.

Ha qualche dato Ipsos da darci sulla situazione produttiva e industriale italiana?
I dati sono quelli dell’Istat, la situazione è difficile specie nel settore delle costruzioni che è il malato cronico del Paese. La propensione al ‘mattone’ è calata in pochi anni dal 70% a poco più del 20%, come rileviamo ogni anno nell’indagine ACRI. Ci sono molte cause, di cui la crisi non è che l’ultima: il rischio della tassazione futura, la mancanza di una bolla speculativa, il rischio sui tassi di interesse. Ma per noi non può essere dimenticata la variabile demografica: sempre meno figli, sempre più tardi, sempre meno famiglie che necessitano di case nuove, di ristrutturazioni, di camerette. Mi permetta una battuta finale: l’industria forse più in crisi in questo Paese è quella delle maternità, il vero tema nel lungo periodo: quest’anno le nascite si attestano a circa 500.000; nel 1964 – 50 anni fa – i nati superarono il milione. Appare inderogabile una seria riforma del welfare che favorisca i percorsi individuali, l’uscita dei giovani dalle famiglie d’origine, la costituzione di nuovi nuclei famigliari, i servizi per l’infanzia, le politiche conciliative che consentano alle donne di non essere costrette a scegliere tra famiglia e lavoro se non si hanno i nonni su cui contare. Tutto ciò che può incentivare la maternità è una soluzione sia per l’oggi sia per il futuro. Ma presuppone una politica coraggiosa, capace di scelte impopolari nell’interesse del paese e delle generazioni future.