LE RETI D’IMPRESA NELLA NUOVA ERA: UNA NUOVA CULTURA
Intervista a Enzo Rullani, professore di Economia della Conoscenza e di Strategie di impresa presso la Venice International University.
La nuova economia della conoscenza: sviluppi e prospettive future
Le reti d’impresa vengono spesso pensate come rimedio a una forma specifica di “debolezza” che caratterizza il capitalismo industriale italiano, frammentato in una miriade di piccole e piccolissime imprese, finora aggregate, grazie al collante territoriale, in un centinaio di distretti industriali, specializzati nei vari prodotti del made in Italy.
Aggregando le imprese, senza far venire meno la loro autonomia individuale, la rete consentirebbe di prendere due piccioni con una fava: mantenere l’ossatura dell’attuale assetto produttivo, basato sull’imprenditorialità diffusa; realizzare, grazie alla rete, quelle economie di scala e di specializzazione (reciproca) che sono precluse alle piccole e piccolissime imprese.
Tutto vero, tranne che per un particolare: le imprese che finora si sono maggiormente spinte nella sperimentazione di forme di alleanza, di cooperazione e di specializzazione reciproca tra imprese sono state le grandi e grandissime. Sia nell’organizzazione delle filiere sia nell’affrontare problemi nuovi, per i quali è utile cooperare con altri. In realtà, la proliferazione di queste alleanze e forme di co-innovazione e cooperazione mette in evidenza il fatto che la rete di imprese – che somma competenze e risorse complementari – non è solo un rimedio alla debolezza della piccola scala, ma è la forma tipica di organizzazione richiesta dal nuovo paradigma emergente: il capitalismo globale della conoscenza. Che impone una priorità: il sistematico ri-uso della conoscenza altrui, in tutti i casi in cui si tratta di acquisire competenze che non si hanno, di velocizzare l’apprendimento, di estendere il proprio raggio di azione, di accreditare significati standard e certificazioni utili.
Non si tratta di una prosecuzione delle traiettorie coltivate in passato, ma di una vera a propria discontinuità. Si tratta di mettere consapevolmente, e senza rimpianti, una distanza tra passato e futuro, che rivede criticamente il primo e prepara intenzionalmente il secondo. Un passaggio difficile, ma che va fatto se si vuole capire, organizzare, proiettare il nostro mondo dalla vita e dalla produzione verso il nuovo paradigma con cui dobbiamo fare i conti. Trovando anche il vocabolario giusto, che consenta di prefigurare e raccontare la transizione da compiere.
Lei pensa che questo vocabolario manchi e sia dunque ancora da mettere a punto?
Certamente. È ormai diventato un luogo comune dire “viviamo nella società della conoscenza” o “adeguiamo il nostro modo di lavorare alle esigenze dell’economia della conoscenza”. Affermazioni vere e importanti, ma di cui spesso sfugge il contenuto: che cosa significa, infatti, vivere nella società della conoscenza o lavorare nell’economia della conoscenza?
Se la conoscenza è diventata la principale risorsa produttiva, e dunque il motore che genera il valore e presidia la competitività, è anche vero che – salvo poche eccezioni – facciamo fatica a renderci conto dei cambiamenti che tutto ciò comporta. Abbiamo dunque bisogno di guardare anche all’economia del valore con nuovi occhi, se vogliamo riconoscere e padroneggiare il nuovo, già presente nella realtà. Pensiamo solo a questo: il lavoro che una volta era lavoro energetico – un lavoro muscolare, di fatica, che trasforma la materia prima in prodotto finito – è ormai diventato nella sua quasi totalità (anche in fabbrica) un lavoro di tipo cognitivo. Ossia lavoro che non trasforma direttamente la materia, ma produce conoscenze (informazioni, idee, decisioni, relazioni, significati ecc.). E sono queste conoscenze a mettere in funzione le macchine o gli altri strumenti cui è delegata la trasformazione materiale degli oggetti e degli ambienti in cui viviamo. Lo stesso vale per il capitale: una volta era quasi totalmente impiegato in assets materiali (edifici, macchine, magazzino di materie e prodotti finiti); oggi è impiegato sempre più spesso nella formazione di assets immateriali (conoscenze, tecnologie, brevetti, soluzioni, relazioni, impegni ecc.). Senza contare che anche il valore delle macchine ha perso relazione con il valore dei materiali impiegati per costruirle e dipende invece, in gran parte, dalle conoscenze più o meno innovative, più o meno esclusive, che vi sono incorporate. I fattori produttivi, dunque, hanno assunto natura cognitiva.
E lo stesso vale per i processi che li impiegano, e per il consumo che generano alla fine della filiera. Anche questo consumo vale in funzione dei significati e delle esperienze emotive che lo accompagnano, non solo per i processi materiali che contiene.
Che conseguenze operative ha questa nuova centralità della conoscenza nella produzione?
Questo spostamento della produzione (di valore) dal versante materiale a quello immateriale ha grandi conseguenze sul modo con cui deve essere organizzato il sistema produttivo, per creare ricchezza ed acquisire vantaggi competitivi rispetto ad altri. La nuova giovinezza delle reti tra imprese discende, appunto, da questa premessa.
Le reti servono infatti a sfruttare al meglio una caratteristica fondamentale dell’immaterialità: la conoscenza è una risorsa che – al contrario delle risorse materiali – non si consuma con l’uso e che può essere riprodotta a costo zero (se perfettamente codificata) o a costi comunque largamente inferiori ai costi di (prima) produzione, nel caso che essa rimanga implicita o dipendente dal contesto e dalle persone che la possiedono. In una rete in cui le conoscenze di ciascuno possono essere messe al servizio di tutti gli altri, la propagazione diventa una fonte importante di valore aggiunto, per tutto il sistema, perché l’apprendimento fai-da-te che sarebbe necessario se ciascuno agisse isolatamente – con i costi, i tempi e i rischi necessari – si traduce in una forma di apprendimento collettivo che ha costi, tempi e rischi molto inferiori. Oggi, per produrre valore non basta infatti fare onestamente il proprio mestiere (come in passato facevano l’artigiano, il fabbro, il lavoratore tradizionale), ma occorre:
1) avere buone idee (innovazione);
2) moltiplicarne l’uso (propagazione).
Sono questi due i nuovi mestieri che alimentano la generazione del valore e di conseguenza la crescita economica. Se Apple ha oggi la quotazione di borsa che ha, è perchè Steve Jobs ha avuto buone idee, che ha portato avanti con determinazione; ma è anche perché le ha plasmate in forme moltiplicabili (l’iPhone, l’iPad ecc.), riuscendo a realizzare milioni di ri-usi. E in questo ampio bacino di ri-uso, definito dai volumi degli apparecchi proposti al consumo, ha attratto i venditori di musica (una canzone scaricabile a 0,99 dollari) e i produttori di applicazioni (per lo store Apple delle apps). Moltiplicando in questo modo anche il valore delle canzoni e delle applicazioni agganciate all’iPhone.
Le reti di impresa formali e informali nella nuova era.
Per allargare il bacino di ri-uso e ottenere grandi moltiplicatori, l’essenziale – come abbiamo detto – è la propagazione della conoscenza, trasferendola dal suo contesto di origine a molti possibili users. Questa propagazione deve appoggiarsi a regole e canali che rendano efficiente il passaggio delle conoscenze dal produttore ai molti utilizzatori e soprattutto che rendano conveniente, per le diverse parti in causa, la prosecuzione del processo nel corso del tempo. Da questo punto di vista, è importante notare che sia il mercato (lo scambio di merce contro un prezzo) che la gerarchia (il trasferimento realizzato all’interno alla grande impresa, sotto il comando del vertice) sono poco efficienti quando si tratta di trasferire la conoscenza. Il libero scambio di mercato, infatti, porterebbe il prezzo della conoscenza (codificata) rapidamente verso lo zero (ossia verso il livello del costo di riproduzione), ragion per cui – per evitare questo esito – si deve disciplinare lo scambio di conoscenze attraverso vincoli (il brevetto, il diritto di autore ecc.) che ne riducono artificialmente il bacino di propagazione e che fanno sorgere tutta una serie di controindicazioni (soprattutto in presenza di Internet).
Restrizioni analoghe devono essere accettate se si pensa a propagazioni per via gerarchica, all’interno della grande impresa: la conoscenza deve essere auto-prodotta (con scarso uso della conoscenza altrui) e auto-sfruttata all’interno, con i costi, i tempi e i rischi conseguenti a questa limitazione del bacino di approvvigionamento e di uso. La rete, nel capitalismo globale della conoscenza di oggi consente di andare oltre i limiti della propagazione di puro mercato e di quella realizzata all’interno della grande impresa.
Creando una piattaforma collaborativa tra imprese dotate di storie e competenze diverse, la rete consente di realizzare forme di condivisione delle conoscenze molto vantaggiose (per la co-innovazione, per la specializzazione reciproca, per l’estensione del bacino di vendita), senza perdere il controllo di quanto messo a disposizione di altri.
Nella rete si può infatti scambiare o cedere le proprie conoscenze all’interno di una cornice fiduciaria e contrattuale che garantisce impegni reciproci, in modo da ridurre di molto
il pericolo di comportamenti opportunistici. Le tre forme di propagazione (mercato, gerarchia, rete) sono in realtà complementari e co-esistenti: il mercato può essere un mezzo veloce di propagazione per diffondere conoscenze “protette” (dalla proprietà intellettuale) o comunque non strategiche. La gerarchia interviene nelle relazioni in cui occorre mantenere un controllo diretto e centralizzato sulla catena cognitiva, anche a costo di sostenere investimenti rilevanti, assumendone il rischio relativo. La rete occupa la Terra di Mezzo tra le due polarità classiche, intervenendo in tutte quelle situazioni in cui la condivisione – se bene organizzata – genera valore, grazie all’uso del collante collaborativo.
Questa Terra di Mezzo si va espandendo sempre di più, man mano che le imprese si trovano nella necessità di limitare investimenti e rischi, focalizzandosi su una core competence limitata e ricorrendo, per tutto il resto, a filiere sempre più estese e articolate, regolate dal mercato o più spesso da rapporti stabili di collaborazione. In Italia abbiamo avuto esperienza di questa diffusione di reti che, pur rimanendo informali, legano fornitori e clienti in rapporti di stabile collaborazione (filiere), o che addensano le imprese di un settore in un particolare luogo (distretto industriale), facendo sì che il territorio diventi fattore produttivo perché fornisce alle imprese gli uomini, i servizi e le conoscenze che servono a certi usi. In altri casi, le reti sono nate invece dalla condivisione di una matrice intellettuale e professionale, fatta da università e centri di ricerca (si pensi al rapporto tra la California e le imprese del settore ICT).
Quando questi rapporti di collaborazione stabile tra imprese diverse e complementari comportano impegni di investimento di rilievo, è inevitabile che l’informalità della relazione venga integrata o sostituita da una formalizzazione contrattuale e giuridica. In passato abbiamo avuto esempi di questa formalizzazione attraverso strutture collaborative formalizzate come le cooperative, i consorzi, le Associazioni Temporanee di Impresa (ATI, per le gare pubbliche), le joint ventures e le alleanze tecnologiche. Da qualche anno è entrato a far parte della normativa italiana anche il “contratto di rete”: un contratto in cui un certo numero di imprese mette a fuoco un progetto comune, associandovi un organo di governo e – volendo – un fondo patrimoniale. In alternativa si possono costituire reti con altre forme giuridiche come la Srl di scopo, il franchising, la licenza di uso di un brevetto o di una soluzione tecnica, gli scambi azionari o dei processi di vera e propria fusione.
I servizi innovativi e tecnologici come asset per rifondare le dinamiche del mercato anche del manifatturiero.
Se le imprese del made in Italy devono entrare a far parte di filiere globali e investire nella produzione di conoscenze o relazioni esclusive, che altri non hanno e non possono facilmente imitare, è gioco forza immaginare che una trasformazione del genere non può essere addossata sulle spalle delle tante piccole e piccolissime imprese che hanno una esperienza limitata alla fabbricazione del prodotto materiale. L’industria deve, in altri termini, diventare intelligente, facendo spazio al lavoro cognitivo e agli assets immateriali. Si pensi alla rivoluzione ICT in corso e alla sua proiezione a scala planetaria. Nei paesi in cui la produzione industriale è realizzata, in prevalenza, da grandi imprese, l’intelligenza che serve per questa trasformazione sarà ottenuta investendo nel sapere e nelle competenze interne dell’impresa. Non esclusivamente, certo, ma in modo prevalente. Ogni impresa si preoccuperà
di rafforzare il management, la ricerca e sviluppo, il sistema ERP, il marketing e la distribuzione, e, in generale, le professionalità qualificate dei propri dipendenti.
Ma in un paese come l’Italia, dove la dimensione media delle imprese manifatturiere è intorno ai 10 addetti, la strada percorribile è un’altra: bisogna sviluppare una rete di imprese di servizi, che, sulla base di un rapporto collaborativo stabile, fornisca alle imprese manifatturiere esistenti le conoscenze e le relazioni necessarie, avendo la possibilità di servire non un solo cliente, ma dieci o cento, fino a raggiungere la scala necessaria dei ri-usi.
Le reti di impresa hanno un ruolo critico anche sotto questo versante: devono mettere insieme, nelle filiere e nei territori, non solo grandi e piccole imprese, ma anche manifattura e servizi avanzati.