La psicologia di Colombo

La psicologia di Colombo

di Stefano Moriggi
Esplorare il mondo fuori di noi per scoprire qualcosa di sé.

Che il mondo sia sempre più un villaggio globale è innegabile. Corpi, merci, capitali e informazioni circolano per l’orbe terracqueo a velocità che solo qualche anno fa erano impensabili. Opportunità e scompensi di tale complesso fenomeno socio-economico – che a molti, e non senza motivo, pare un destino preoccupante e ineluttabile – si intrecciano in un rompicapo che genera più conflitti che accordi. Su fronti opposti, infatti, si confrontano (e si scontrano) prospettive e ideologie convinte, ciascuna a suo modo, di custodire in una formula o addirittura in una filosofia di vita la ricetta salvifica.

C’è da un lato chi, erede più o meno spregiudicato della “mano invisibile” di Adam Smith, canta le magnifiche sorti e progressive del libero mercato e di una globalizzazione incontrollata; dall’altro, invece, fa da contro canto la voce di coloro che, elevando la “lentezza” a dogma pseudo-teologico, diffondono il loro verbo contrapponendo (troppo) “ingenuamente” tradizione e innovazione. Ora, al di là delle convinzioni e degli interessi degli uni e degli altri, ci si potrebbe anche chiedere se le dinamiche di tale contrapposizione non possano essere interpretate, su un altro piano della riflessione, come un prodotto della globalizzazione medesima. O, per lo meno, di quella fase del villaggio globale compiuto e totalizzante che stiamo vivendo. In che senso? Procediamo per gradi e facciamo un salto indietro nel tempo… che potrebbe rivelarsi utile anche per prendere in considerazione aspetti che troppo spesso rimango in ombra di una questione tanto complessa e sfaccettata.

Come è noto “globalizzazione” è un concetto relativamente recente che, però, con le dovute cautele e precisazioni, viene utilizzato da studiosi di differente formazione per comprendere e descrivere diversi periodi della storia planetaria. Un esempio classico è rappresentato dall’analisi delle ripercussioni, per molti versi tragiche e traumatiche, innescate dall’approdo nelle Americhe di Cristoforo Colombo, ovvero dalle conseguenze generate da una delle più importanti e sconvolgenti esplorazioni della storia. A tal proposito, per citare un esempio, il geografo Alfred W. Crosby, nel 1986, ha introdotto il concetto di imperialismo ecologico. E lo ha fatto partendo da una considerazione apparentemente lapalissiana: “I migranti europei e i loro discendenti sono dappertutto, e questo richiede una spiegazione”. Già, si parla proprio di migranti europei, un’espressione che oggi, per molti versi potrebbe suonare come un ossimoro; ma invece racconta di come e quando il Vecchio Mondo ha cercato fuori da sé nuovi orizzonti di sviluppo e di conquista, facendo incontri ed esperienze che avrebbero profondamente segnato la storia a venire.

Ma non solo. Tale diffusione, dopotutto, se ben letta, non può che generare un interrogativo meritevole di attenzione e di approfondimento. Come mai, infatti – e proprio questo iniziarono a chiedersi studiosi di formazione differente qualche decennio fa – gli africani vivono per lo più in Africa; gli asiatici in Asia, mentre i discendenti degli europei sono numerosi in molti continenti: dall’Australia alle Americhe fino agli Stati più meridionali dell’Africa? Si tratterebbe, in altre parole, di chiedersi ragione e motivo del successo di tali “trapianti”, visto che in alcune delle aree citate il ceppo europeo rappresenta addirittura la maggioranza della popolazione.

Non accontentandosi di liquidare la faccenda con il tradizionale riferimento alla superiorità tecnico-scientifica del Vecchio Mondo, Crosby si spese invece nello spiegare come, sul lungo periodo, ciò che avrebbe consentito nei fatti ai migranti europei l’occupazione e lo sfruttamento di tali e tante terre fu anzitutto un vantaggio di ordine biologico. In sintesi – argomentava Crosby, gettando con i suoi contributi nel merito le basi di una nuova disciplina: la storia ambientale – a partire dal 1492 cominciarono a “incontrarsi” e a “mescolarsi” interi ecosistemi dando origine a quello “scambio colombiano” in conseguenza del quale, per esempio, il mais arrivò in Africa, la patata dolce in Asia orientale, i cavalli e le mele sul continente americano e il rabarbaro e l’eucalipto in Europa. Ma con i prodotti viaggiarono anche insetti, batteri, virus… Proprio in quest’ottica, chiosava opportunamente Charles Mann nel suo 1493. Pomodori, tabacco e batteri (Mondadori, 2013) lo “scambio colombiano non fu né pienamente controllato né pienamente capito da chi lo effettuò”. E da più di un punto di vista. Se da un lato, infatti, è dentro il più ampio orizzonte ecologico che occorre ricostruire come gli europei riuscirono a “trasformare buona parte delle Americhe, dell’Asia e in misura minore, dell’Africa in versioni ecologiche dell’Europa” – ovvero, “in paesaggi che i nuovi venuti potevano usare più agevolmente degli abitanti originari”; d’altro canto, non andrebbe neppure trascurato, nella logica di questo scambio, quanto l’impatto con un Mondo Nuovo abbia cambiato inciso sulle coscienze dei conquistatori.

La scoperta di “nuovo occidente” abitato da genti che nessuna religione o filosofia aveva contemplato o previsto, scardinò convinzioni e credenze consolidate attorno a cui prendeva forma la stessa idea di umanità. E ha colto nel segno chi ha sottolineato come, ben oltre lo sfruttamento e il controllo, gli Europei cercarono di addomesticare – omologandola – quell’alterità incarnata e profonda che metteva radicalmente in discussione la propria identità. Un’operazione, quest’ultima, ben più facile a dirsi che a farsi – il cui studio condusse il filosofo bulgaro Tzvetan Todorov a concepire in un testo ormai classico – La conquête dell’Amérique (Édition du Seuil, 1982) – la sequenza dei viaggi di Colombo nel Nuovo Mondo come “la storia della scoperta che l’io fa dell’altro”. Ma non di un altro qualsiasi, bensì – spiega ancora Todorov – di quell’“altro assoluto” in relazione al quale il sé si imbatte drammaticamente in una diversità irriducibile; di quell’altro al cui contatto le aspettative e i pregiudizi o vanno in frantumi o si irrigidiscono fino a diventare pericolose verghe ideologiche. Lo stesso Colombo fa esperienza delle novità che incontra tentando di comprenderle dentro le sue credenze e convinzioni. Per esempio, il grande navigatore italiano – come molti al suo tempo – è persuaso circa l’esistenza delle sirene, e pertanto è assolutamente convinto della veridicità della testimonianza di un ammiraglio che, invece, aveva visto solo delle donne indigene: “…quando l’Ammiraglio – scrive Colombo – raggiunse il Rio Oro, dice di aver visto tre sirene che sporgevano assai dal mare, ma non erano così belle come vengono descritte; infatti il loro volto assomigliava a quello di un uomo” (Giornale di bordo, 9 gennaio 1943).

E similmente, senza esitazione sostenne di avere la prova concreta circa l’esistenza del paradiso terrestre in un anomalo rigonfiamento della rotonda della Terra. Ne “l’Imago Mundi” di Pierre d’Ailly aveva, infatti, letto che tale paradiso doveva trovarsi in una qualche temperata regione al di là dell’Equatore. E così lui scriveva ai sovrani di Spagna al tempo del suo terzo viaggio, il 31 agosto 1498: “Trovai che il mondo non era rotondo così come viene descritto […] aveva la forma di una palla rotonda, su un punto della quale fosse posta una mammella femminile; la parte dove si trovava la mammella era la più elevata e la più vicina al cielo, ed era situata sotto la linea equinoziale in questo mare Oceano”. E aggiungeva, mostrando una volta di più quanto le credenze di Colombo condizionassero la sua esplorazione: “Sono convinto che quel luogo è il paradiso terreste, dove nessuno può giungere se non per volontà divina. […] Non ritengo che il paradiso terrestre abbia la forma di una montagna scoscesa, come ce lo descrivono gli scritti a esso dedicati, ma che si trovi invece su quella sommità nel punto da me indicato che corrisponde al picciolo di una pera”.

I pregiudizi con cui tentiamo di addomesticare il nuovo di cui facciamo esperienza tendono a resistere ad ogni contraddizione: i tratti somatici delle donne indigene non mettono in discussione l’esistenza delle sirene, ma ne rivedono la proverbiale bellezza; la presunta anomalia terrestre non cancella il mito de paradiso terrestre, ma corregge le scritture. Ha ragione Todorov quando ricorda che Cristoforo Colombo aveva poco a che spartire con un approccio empirico alla conoscenza. Nella sua ottica – spiega ancora Todorov – “l’argomento decisivo è un argomento di autorità, non di esperienza”. Tuttavia, la dipendenza culturale e psicologica dalla propria visione del mondo, più o meno religiosa, più o meno dogmatica, non è cosa che si archivia con facilità. La tentazione a modellare ciò che ci sorprende per diversità o alterità secondo i nostri schemi più consolidati è istintiva, per alcuni insopprimibile. Tale approccio, come si accennava, non si preclude solo la possibilità di conoscere più e meglio ciò che meno ci assomiglia (e dunque che meno sappiamo); ma, paradossalmente, ci impedisce di apprendere qualcosa di più di noi stessi nel confronto. Un aspetto questo che ben aveva intuito il russo Michail Bachtin quando notava: “Tutto ciò che tocco – a cominciare dal mio stesso nome – perviene alla mia coscienza dal mondo esterno passando attraverso la bocca degli altri, con la loro intonazione, la loro tonalità emozionale e i loro valori. Non prendo coscienza di me se non attraverso gli altri”.

Oggi, per certi versi, la situazione pare speculare. Ancor più del diverso (per quanto ancora ben lontano dall’essere riconosciuto), è piuttosto il timore dell’indistinto che accende nuove ansie identitarie, dai regionalismi più folcloristici ai razzismi più violenti. Il terrore anche inconscio del venir meno di un Altro in cui cogliere quelle diversità che rimarcano (in negativo) la nostra specificità è chiaro sintomo del fatto che anche noi, cittadini del villaggio globale, siamo attori di uno “scambio” che né comprendiamo né controlliamo pienamente. Né fuori né dentro di noi. Per lo meno, non ancora…