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In ricordo di Ada

In ricordo di Ada

di Stefano Moriggi
La contessa che sognò le macchine pensanti

Che il pensiero un giorno potrebbe non essere più esclusiva della specie umana – per quanto ancor oggi ritenuta dai più una eventualità tanto fantascientifica quanto inquietante – è un’ipotesi che affonda le sue radici in un passato remoto in cui filosofi e scienziati hanno preso sul serio l’idea di costruire “macchine pensanti”. Non pochi commentatori, analizzando la lunga storia di questo progetto – a partire dalla costruzione dei primi automi – hanno colto nei diversi tentativi di riprodurre artificialmente l’intelligenza umana un atto prometeico e in quanto tale tracotante. Come se, appunto, Homo sapiens, spingendosi oltre il consentito, volesse sostituirsi a Dio creando una nuova “specie” capace di agire e pensare in autonomia. A costoro, il logico Alan M. Turing – padre fondatore dell’informatica moderna, nonché costruttore della macchina che seppe “intelligentemente” intercettare il linguaggio cifrato di Enigma, cambiando così le sorti della Seconda guerra mondiale – suggeriva piuttosto di considerare il fatto che “costruire un cervello” fosse al contrario un atto di umiltà.

Ovvero, andasse inteso come il tentativo di comprendere la complessità delle dinamiche sottese all’umano pensare, riproducendole in laboratorio. Proprio in quest’ottica si può (e si dovrebbe) rileggere un intero programma di ricerca che – per lo meno a partire dal tentativo (parzialmente riuscito) del filosofo Wilhelm Gottfried Leibniz di “tradurre” la logica proposizionale di Aristotele in termini algebrici, fino ai recenti prototipi di intelligenza artificiale basati su computer quantistici – costituisce, tra l’altro, una delle più radicali indagini filosofiche (oltre che scientifiche) sulla vexata questio: cosa significa (davvero) pensare? Nessuno dei protagonisti di questa avventura intellettuale hai mai preteso di delegare il pensiero a una macchina. E, comunque, almeno per ora, si è ancora lontani dal poter riprodurre (e dunque comprendere) una macchina cosciente: ovvero capace di dire consapevolmente… io. Ma questo più che un limite percepito come invalicabile è un orizzonte di ricerca per tutti quegli studiosi che nella interazione con le tecnologie hanno da sempre saputo cogliere uno spiraglio attraverso cui meglio comprendere il mondo e se stessi. A partire da una donna di nome Ada, poco conosciuta dal grande pubblico, ma meritevole di una notorietà più vasta di quella che la storia della scienza ha saputo riconoscerle. Mi piace ricordarla qui non solo in quanto cade quest’anno il bicentenario della sua nascita, ma soprattutto perché, insofferente agli idoli morali e ai feticci culturali del suo tempo, intuì prima di molti altri gli inediti orizzonti che le “macchine pensanti” avrebbero potuto squadernare in un futuro che lei non avrebbe potuto vedere. Non fu né scontato né facile per Ada Byron dar seguito alle sue passioni scientifiche, come dimostra il seguente aneddoto che lei stessa raccontava…

“L’unica altra persona presente era un signore di mezza età che ha deciso di comportarsi come se io fossi l’oggetto in mostra, cosa che ovviamente ho pensato fosse estremamente impudente e imperdonabile”. Stizzita e sconvolta, così Ada, in una lettera alla madre del 26 giugno 1838, cercava di sfogare la rabbia accumulata in occasione di una sua visita a Exeter Hall. Ci era andata da sola, in carrozza. Voleva studiare da vicino il modello funzionante di quel “telegrafo elettrico” che Edward Davy aveva presentato alla comunità scientifica londinese l’anno precedente e che, complice il parere favorevole di Michael Faraday, sarebbe stato brevettato il 4 luglio del 1838. Ma quella mattina, ben più che dalla macchina dell’ingegnoso chirurgo del Devonshire, l’occhio indiscreto del pregiudizio vittoriano era stato calamitato dalla presenza, eccentrica e anomala per l’epoca, di una donna che aveva osato insinuarsi in ambienti e contesti rigorosamente maschili: quelli della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica.“Sono sicura che mi abbia preso per una governante molto giovane (e immagino abbia pensato anche piuttosto graziosa). […] Si è fermato là finché sono rimasta, e poi mi ha seguita fuori. Sono stata attenta a mostrarmi tanto aristocratica e tanto come una contessa quanto mi era possibile”. Aristocratica lo era, per lo meno da quando suo marito, William King, era stato insignito dal primo ministro, il visconte Melbourne, del titolo di conte di Lovelace in occasione dell’incoronazione della regina Vittoria. E non di meno, era consapevole del suo fascino; sebbene (almeno) una volta, irriverente e vanitosa, avesse fatto notare come Margaret Carpenter – la pittrice che la ritrasse nel 1836 – avesse evidentemente voluto far risaltare “l’estensione della mia cospicua mascella, su cui penso andrebbe scritta la parola matematica”. Tuttavia, i modi rarefatti e compìti della nobiltà se da un lato rappresentavano per Ada l’utile ipocrisia per guadagnarsi libertà altrimenti stigmatizzate come trasgressioni; dall’altro rimanevano comunque dei panni stretti dentro cui, a fatica, riusciva a contenere le passioni e gli interessi che davano senso alla sua stessa esistenza. Non è infatti un caso che quel giorno, a Exeter Hall, aveva preferito andarci con un abito quantomeno inconsueto (se non addirittura sconveniente) per una lady del suo rango. Il contegno, virtù molto apprezzata in società, è sempre stato per Ada un obbligo complicato cui attenersi. Anteporre l’etichetta all’indole era per lei una promessa difficile da mantenere. E lo sapeva bene sua madre, Anne Isabella Milbanke che, già molti anni prima, con una meraviglia pari alla preoccupazione, aveva osservato la figlia diciassettenne comportarsi “in modo accettabile” tra le giovani debuttanti presentate alle teste coronate d’Inghilterra.

Senza dubbio, al rispetto delle regole della società Ada ha preferito l’indagine delle leggi della natura. Trasgredire le prime e studiare le seconde è stato per lei un gioco irrinunciabile, uno stile di vita. Un esercizio di emancipazione sociale e intellettuale incontenibile e incomprensibile all’interno di quel groviglio di norme e convenzioni la cui osservanza (per lo meno in apparenza!)