Gli inglesi “a lezione” da Leonardo, Michelangelo e Raffaello. E noi?
di Stefano Moriggi
Troppo spesso non si riflette abbastanza sulle dinamiche e sulle pratiche innescate dall’introduzione di uno strumento all’interno di un contesto. Non siamo infatti abituati a indagare le ragioni che hanno dato forma (e dunque funzionalità) a uno spazio, qualificandolo. Si consideri, per esempio, l’aula scolastica. Cosa ha portato nei secoli il consolidamento di una tipologia di arredo incentrata su una cattedra per il docente contrapposta alla schiera di banchi per gli alunni? A molti potrebbe sembrare – e di fatto continua a sembrare – il “setting naturale” per l’apprendimento; quando in realtà non è altro che il portato culturale conseguente all’introduzione in un contesto deputato alla didattica di un particolare strumento, il libro.
Attorno a tale prezioso “tabernacolo” del sapere tradizionale, nel tempo l’insegnante, forte delle sue competenze, delle sue doti comunicative e della sua esperienza, ha finito per diventare – come di recente, tra gli altri, ha osservato il sociologo francese Michel Serres – “il sacerdote del Verbo”. O, per dirla più laicamente, il “portavoce” di una conoscenza custodita nel libro e diretta a una platea di discenti destinati all’ascolto. Da qui l’origine della cosiddetta lezione frontale e, contestualmente, la strutturazione e l’arredo dell’aula tradizionale. Siamo già intervenuti su questi argomenti dalle colonne di Logyn, cercando di ribadire un concetto tanto intuitivo (a parole) quanto difficile da introdurre nelle effettive buone pratiche della scuola italiana: ovvero, che la transizione al digitale dell’istituzione scolastica (e più in generale della società) non può e non deve essere intesa nei ristretti termini di un semplice aggiornamento informatico. La svolta è culturale, non banalmente strumentale. Illudersi del contrario significa, in prima istanza, non cogliere la profondità e l’entità di una trasformazione in corso; in seconda, escludersi dalla possibilità di cogliere rischi e opportunità di un nuovo orizzonte ancora tutto da esplorare.
Che si tratti di un cambiamento epocale lo si può intuire anche osservando la polarizzazione dell’opinione pubblica (e di non pochi addetti ai lavori). C’è chi, gli “entusiasti”, salutano ingenuamente una nuova era da inconsapevoli alfieri di una idea ottocentesca di progresso. E poi c’è anche chi, gli “apocalittici”, cercano rifugio psicologico in un passato idealizzato pur di non affrontare il rapido precipitare del futuro nella loro quotidianità. Tale polarizzazione è, appunto, uno dei sintomi della radicalità della mutazione in corso. Per qualche osservatore esterno, poi, ci vuole ancora tempo per metabolizzarlo. Forse non siamo ancora pronti e comunque – incalzano altri – scienza e tecnologie evolvono con una velocità insostenibile per la morale, l’etica e la politica. Dunque, che fare? Personalmente, comincerei a riflettere sul fatto che di fronte a un vero cambiamento non possiamo che essere colti impreparati. Se così non fosse, non si tratterebbe di un cambiamento degno di questo nome. Da questo punto di vista, ogni delega al futuro suona come un alibi per non assumersi le responsabilità del presente. Anche perché il futuro va preparato, pensato, progettato – proprio a partire da una ragionata disamina del presente (e, quando occorre, del passato). A partire, magari, proprio dall’analisi di un’aula scolastica. Ecco, alla luce di quanto detto in questo e in altri articoli dedicati al tema in questione, sarebbe ingenuo pensare che la transizione al digitale delle scuole – ovvero l’introduzione dei nuovi media nelle aule – possa lasciare inalterati da un lato i metodi di insegnamento e dall’altro gli spazi e gli arredi del setting didattico.
Se infatti – per citare solo un esempio – la sovrabbondanza di dati e informazioni resi disponibili dalla rete, ha comportato la necessità di sviluppare modelli di apprendimento capaci di trasformare gli alunni in piccoli ricercatori (tutorati e coordinati dai rispettivi docenti); occorre d’altra parte – a fronte di una sensata infrastrutturazione dell’edificio scolastico – che si preveda una riprogettazione dell’ambiente formativo in modo da favorire il consolidamento delle pratiche laboratoriali proprie del ricercatore. Una nozione base, questa, per pianificare il futuro della scuola, ma che ancora non circola come dovrebbe tra i decisori politici e anche tra molti dei professionisti senza dei quali il progetto rimarrebbe monco – a partire dagli architetti. Da questo punto di vista, sono ancora troppo poche le occasioni di incontro tra specialisti di formazione diversa al fine di condividere competenze e acquisizioni indispensabili a gestire fenomeni di tale complessità. Ma quando si verificano – come il mese scorso ad Ancona in occasione di un evento organizzato dal sito www.ideealcubo.com – si comincia davvero a pensare e a operare in rete. Erano infatti più di trecento gli architetti accorsi alla Mole Vanvitelliana per confrontarsi con metodologi, epistemologi, pedagogisti, docenti. E per discutere insieme modelli e ipotesi su cui investire culturalmente (prima ancora che economicamente!). Non mancavano gli imprenditori, che – intuendo meglio e prima di altri soggetti istituzionali il significato dell’operazione – non si erano limitati a sostenerla, ma avevano addirittura preteso di essere tra i promotori.
Ma c’è dell’altro… Considerazioni di questo tipo dovrebbero anche aiutare gli addetti ai lavori a comprendere il perché nella transizione a modelli di didattica aumentati dalla tecnologia siano (culturalmente e psicologicamente) più agevolati gli istituti tecnici e professionali. Ovvero, le scuole in cui la lezione frontale è solo uno degli approcci possibili all’apprendimento, accanto ad altri momenti di formazione e studio in cui è la “pratica” del laboratorio (o dell’officina) a prendere il posto della “grammatica” del libro di testo (e del suo “portavoce”).
Basterebbero queste osservazioni – anche se molte altre se ne potrebbero aggiungere – per sensibilizzare le istituzioni competenti sull’importanza e l’urgenza di investire e scommettere sulla scuola, proprio a partire da una rivalutazione degli istituti tecnici e professionali. Non si tratterebbe solo di restituire dignità e centralità a istituti immeritatamente ridotti o considerati come il parcheggio degli studenti meno volenterosi. Più profondamente, sarebbe il caso di comprendere che – per dirla con il sociologo Richard Sennett – il contesto “artigianale” del loro assetto didattico potrebbe di fatto – se debitamente gestito da seri percorsi formativi – rivelarsi l’avanguardia e il traino di tutto il mondo scolastico verso un futuro che altrove è già presente. Alcuni storceranno il naso, mi rendo conto. Specie tutti coloro – io, ormai da tempo, li definisco vetero-umanisti – che vivono beati e inconsapevoli nel clamoroso equivoco (molto italiano) – di non considerare scienza e tecnica (e dunque mestieri e professioni) cultura a tutti gli effetti – almeno quanto le lettere e le arti.
Stigmatizzare tale errore non significa soltanto scuotere un idolo di ignoranza; ma indicare al contempo una ipotesi concreta di lavoro (tra le tante altre plausibili) per avviare quella pianificazione del futuro cui prima si alludeva. Iniziando proprio dalla scuola – e, come si è detto, proprio da quelle scuole apparentemente meno qualificate e qualificanti.
Ma che in realtà, pur con tutti i problemi economici e strutturali che le affliggono, rappresentano le “botteghe” da cui ripartire per sviluppare e sperimentare modelli di didattica compatibili ai cambiamenti sociali e cognitivi introdotti dalle tecnologie. A proposito di botteghe… Da qualche anno in Inghilterra si stanno diffondendo le Studio Schools (www.studioschooltrust.org). Nate a Manchester, costituiscono una rete di piccoli istituti professionali distribuiti sul territorio nazionale: ciascuna accoglie circa 300 studenti di età compresa tra i 14 e i 19 anni e – come spiegano i docenti – “da noi i ragazzi iniziano a fare esperienza del mondo del lavoro mentre apprendono”. E da più punti di vista.
L’obiettivo principale di questo esperimento didattico è appunto – come si legge nello statuto delle Studio Schools – quello di “ridimensionare il gap crescente tra le abilità e le conoscenze necessarie ai giovani per avviare con successo una carriera lavorativa e l’offerta formativa corrente”. Si tratta, pertanto, di cercare di recuperare una dimensione operativa del sapere: e proprio un modello didattico aumentato dalle tecnologie è quello che consente una collaborazione effettiva e virtuosa di queste scuole con imprese e aziende del territorio. Attraverso simulazioni (sempre più prossime alla realtà) di “progetti di impresa”, nozioni, formule, teorie e concetti vengono studiati proprio come un apprendista artigiano impara, usandoli, gli attrezzi del mestiere. Tra questi attrezzi sono contemplate competenze irrinunciabili in qualsiasi contesto (non solo in un’azienda!) aumentato dalle tecnologie: regole della comunicazione, lavoro cooperativo, strategia progettuale, applicazione delle conoscenze acquisite in contesti diversi, pensiero critico, soluzione di problemi e psicologia di gruppo. Qualcuno potrebbe pensare – e non del tutto a torto – che esperienze formative di questo tipo rappresentano il precipitato culturale (e professionale) di una pedagogia tipicamente anglosassone. Non c’è dubbio, tuttavia, inviterei i più curiosi a chiedersi come mai questi istituti sono stati chiamati Studio School… La risposta, di nuovo, la si trova nel loro statuto (oltre che sul loro sito): “il nome proviene dal concetto di studiorinascimentale, diffuso in Europa dal 1400 al 1700, in cui lavorare e imparare erano un tutt’uno. […] Artisti e inventori come Leonardo da Vinci, Raffaello e Michelangelo hanno tutti imparato e quindi insegnato in un contesto laboratoriale (studio setting). Nostro scopo è recuperare questa antica tradizione e applicarla nel XXI secolo”. E noi? In nome di quale alibi o pregiudizio possiamo permetterci il lusso di dimenticare il nostro Rinascimento?