GIANPAOLO ZAMBONINI – La tecnologia che aiuta le indagini investigative

GIANPAOLO ZAMBONINI – La tecnologia che aiuta le indagini investigative

Un caso di PA completamente rinnovato e all’avanguardia

Efficienza tecnologica? Sì, con un occhio al presente e uno alla ricerca dello sviluppo per il futuro, in cui nasceranno criticità e allo stesso tempo soluzioni nuove. Lo dice Gianpaolo Zambonini, direttore della IV Divisione del Servizio Polizia Scientifica, presso il Dipartimento di Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno. Un caso di PA altamente evoluto, un processo di innovazione e ricerca tecnologica cominciato qualche anno fa, che ha visto un cambiamento di cultura prima ancora che di tecnologia.

La Polizia Scientifica è un caso di PA che ha innovato tecnologie e processi interni per essere più efficiente: come lo ha fatto? Quali sono le nuove tecnologie a servizio della sicurezza dei cittadini?
Negli ultimi cinque anni la Polizia Scientifica ha avviato un processo di trasformazione interna, per migliorare i risultati degli accertamenti ottenuti dai laboratori tecnici e allinearsi agli standard tecnologici più elevati. Siamo intervenuti, oltre che sull’organizzazione interna e sulla certificazione dei laboratori, anche sulla valorizzazione di due aspetti fondamentali: le risorse umane e la capacità di sviluppare progetti per migliorare i processi lavorativi e reperire risorse economiche. In primo luogo, è stato creato un ufficio che si occupa di fundraising e che ha permesso di finanziarie l’acquisizione di nuove tecnologie, vincendo numerosi progetti banditi dalla Comunità Europea, tra cui quattro di potenziamento tecnologico e tre di ricerca Horizon 2020. In secondo luogo, sono state aumentate le risorse umane con skill elevate, assegnando ai nostri uffici cinquanta funzionari laureati in fisica, chimica, biologia, informatica e architettura. In relazione a nuovi strumenti cerchiamo di muoverci sempre con un occhio al presente e uno al futuro, portando avanti le attività ordinarie con le tecnologie che abbiamo a disposizione e, contestualmente, cercando di sviluppare nuovi metodi da mettere a sistema. Un notevole salto in avanti è stato fatto nelle tradizionali attività di sopralluogo introducendo un sistema informativo che digitalizza tutti i dati acquisiti in queste fasi: la prima forma di big data relativa alla scena del crimine. Sempre in questo ambito, il prossimo anno verrà presentato il nuovo laboratorio di merceologia forense per la ricerca di tracce sempre più piccole tra fibre, vernici, vetro e altri materiali. Un altro settore potenziato è quello della ricostruzione della dinamica di un evento criminale. Attraverso l’introduzione della realtà virtuale, è possibile rivivere un evento, così come mediante le tecniche di camera matching e virtual evidence si possono rispettivamente sovrapporre riprese da telecamere e modelli virtuali, riportando un oggetto reale all’interno di un modello virtuale. Queste nuove tecniche hanno già consentito di risolvere due casi di omicidio.

L’accesso alla mole di dati che abbiamo oggi come ha cambiato, da un lato, il crimine e, dall’altro, gli strumenti e le strategie per la difesa?
Aumentano gli strumenti a disposizione delle Forze di polizia, seppure è opportuno evidenziare che predisporre delle contromisure è più difficoltoso che sfruttare un’opportunità offerta da una tecnologia. Per questo il lavoro degli investigatori è sempre più complesso e quando si crea una nuova metodologia investigativa, c’è sempre un gap temporale con chi sfrutta l’opportunità tecnologica.
Questo è un argomento molto complesso perché la diffusione di strumenti informatici e il potenziamento delle reti radiomobili procedono a velocità molto elevata. Inoltre, oltre all’uso di computer e telefoni cellulari, che ormai fanno parte della nostra vita quotidiana, è necessario dare uno sguardo alle minacce future provenienti dalla diffusione di smart city, IoT, criptovalute.

A proposito di crimini, quanto conta oggi la cybersecurity? Cosa si sta facendo per tutelare la sicurezza delle aziende e dei privati in Italia?
La cybersecurity conta talmente tanto che le esigenze di sicurezza digitale hanno eguagliato, per molti aspetti, quelli di sicurezza fisica. Per avere un’idea dell’espansione del fenomeno è sufficiente leggere i giornali: le notizie che trattavano di attacchi e di sicurezza informatica, fino a pochi anni fa, erano dell’ordine di una al mese; oggi sono all’ordine del giorno. Il 2018, fino ad ora, è stato un anno molto importante per la sicurezza informatica in ragione dell’aumento non solo delle minacce, ma anche delle iniziative volte a contrastarle: il DPCM Gentiloni per la protezione del cyber spazio nazionale; il nuovo piano nazionale per gli indirizzi operativi; la nuova legge sulle intercettazioni; un decreto-legge che obbliga le aziende colpite da attacchi a segnalarlo agli organi competenti. Possiamo dire che rispetto al passato si sta facendo molto, la stessa Commissione Europea ha finanziato una linea specifica per i progetti di cybersecurity e tutte le grandi imprese creano asset dedicati.

Si ha l’impressione che le tecniche per far fronte alle minacce informatiche siano sempre un po’ in ritardo rispetto ai malintenzionati. Secondo lei è possibile invertire la tendenza?
Possiamo tirare le somme con una considerazione ben nota a tutti gli esperti di settore: “per difenderci dalla tecnologia non serve altra tecnologia”. Infatti serve gente preparata e una cultura aziendale diffusa. Nei prossimi anni la tecnologia sarà sempre più presente nella vita di tutti i giorni: e questo vale sia per noi investigatori, che per le normali attività della vita quotidiana. Io ho conosciuto un iPad a trent’anni circa, mia madre l’ha solo visto, mia figlia che ha soli sei anni lo usa meglio del padre. La nostra è una generazione di mezzo, che si è trovata a cavallo di un significativo sviluppo tecnologico e non aveva la cultura adeguata a gestire i rischi derivati da un abuso di questi strumenti. Quindi, chi ha avuto la “cassetta degli attrezzi” prima degli altri è diventato un cyber criminale e ha sfruttato l’effetto sorpresa. Da questo punto di vista, la speranza va riposta nelle nuove generazioni, nate in un mondo digitale, che potrebbero avere successo dove noi in parte abbiamo fallito.