Fotografare per vivere la cultura e l’umanità del luogo

Fotografare per vivere la cultura e l’umanità del luogo

Aldo Soligno, fotoreporter in giro per il mondo, nella sua esplorazione cerca di riempire un foglio bianco catturando di volta in volta l’essenza della parte umana di ogni Paese. Nell’intervista attraversa i suoi lavori come delle storie da cui diventa difficile il distacco.

Eslporando il mondo per cercare cosa?
Personalmente, quando parto per un viaggio, prima ancora di esplorare il mondo cerco di esplorarne l’umanità che ne fa parte. Quello che mi interessa di più sono le relazioni tra gli esseri umani e l’ambiente che li circonda. Sono stato in tante situazioni piuttosto estreme, come guerre, povertà o malattie, e quello che mi ha sempre lasciato stupito sono la forza e la tenacia che tante volte queste situazioni instillano nell’uomo. Spesso, quando torno a casa e racconto le mie esperienze, molte persone fanno fatica a credermi. Fanno fatica a credere che esista ancora tanta umanità, coraggio e voglia di riscatto. Ma proprio questi contesti estremi spesso obbligano noi esseri umani a tirare fuori queste qualità nascoste, che in contesti “normali” spesso lasciamo sopire. Devo dire che forse ogni mio viaggio prevede sempre una doppia esplorazione: quella culturale, di luoghi e persone lontani dalla nostra quotidianità, e quella umana, ossia quella della nostra umanità in senso lato, che è uguale in ogni parte del mondo. Nel bene e nel male.

La creatività è parte integrante del tuo lavoro, quando ti commissionano una “missione fotografica” come riesci a dargli quel tocco di creatività che rende la foto speciale?
Devo ammettere che quando mi commissionano un lavoro sono più contento perché mi mette di fronte a un foglio bianco da riempire con punti di vista diversi dal mio. Vi racconto questa storia rappresentativa di cosa voglio dire. La fondazione Unicredit nel 2011 mi ha commissionato un lavoro in cui bisognava reinterpretare in chiave moderna un quadro del 1500 che poi sarebbe stato esposto durante l’incontro del Fondo Monetario Internazionale a Washington. Io sono un fotoreporter, e non ho approfonditi studi di arte, quindi confesso, ero proprio indeciso sul da farsi. Il quadro rappresentava un giovane nobile del 1500 che si apprestava a suonare un flauto. Così ho deciso di attualizzare quel quadro in chiave sociale: in quel periodo la cultura di chi era appannaggio? Sicuramente di un ceto sociale elevato, quasi sempre di sesso maschile, non era certo un lavoro ma lo si faceva per diletto e questo traspare dagli occhi del suonatore. Oggi, per fortuna, la cultura non è più appannaggio del genere maschile, oltre che alla portata di tutti i ceti sociali. Inoltre può anche diventare un mestiere. Mestiere messo però in difficoltà dalla crisi che mordeva quell’anno, il 2011. Così ho chiamato una ragazza che somigliasse al giovane del quadro, vestita con colori che lo richiamassero e ho messo in scena un set che per simboli ricordassero i simboli presenti nel quadro. Le ho fatto interpretare la stessa posa cambiandone però lo sguardo e la posizione delle mani, sostituendo l’appello all’azione del quadro originale con la staticità di chi sa fare ma è impossibilitato dalle condizioni contingenti. Un altro esempio è stata la campagna di Obama nel 2012, non c’era abbastanza budget per seguirlo personalmente, quindi dovevo trovare qualcosa che lo raccontasse ugualmente. Obama nel 2008 era stato eletto sull’onda dell’emotività e del sogno che si contrapponevano alla figura di Bush che aveva governato gli 8 anni precedenti. Mi sono allora chiesto se, ora che il sogno si era dovuto scontrare con le realtà di governo, gli Americani avessero veramente deciso di intraprendere un nuovo corso politico, o se per caso, una volta terminato il sogno, avessero deciso di ritornare al pragmatismo della politica pre-Obama. Così invece di girare l’America in lungo e largo sono stato a New York e in 48 ore ho fotografato chiunque incontrassi chiedendo loro una frase da abbinare sulle elezioni. Il risultato molto gratificante è stato che il giornale che mi aveva commissionato il lavoro, ha dato molto più spazio a questo servizio, e addirittura le foto sono state esposte in una galleria italiana molto importante. È stato un grande risultato se considerate che il tutto è stato realizzato con dei budget davvero ridotti. Io penso che se qualcuno deve pagarmi per una mia immagine, allora deve esserci un buon motivo, devo dargli qualcosa che non può trovare altrove.

I tuoi reportage sono molto diversi l’uno dall’altro, passi dalla malattia, alla cultura, dal sociale alla guerra, quali sono gli step per iniziare un progetto?
Ci sono diversi modi per approcciarsi a un progetto fotografico. Intanto dipende chi è il committente, se sono io stesso, un giornale o un’azienda. Di sicuro ci vuole sempre una fase di preparazione in cui si approfondiscono tutti i temi che bisognerà trattare e su cosa ci si vorrà focalizzare. Dopo di che ci vuole un’idea. Anche semplice, ma che funzioni. Quando il committente sono io stesso, una parte difficile da gestire è il contatto con le persone, io devo riuscire ad entrare nelle case delle persone. Molti pensano che il fotogiornalista è solo un bravo fotografo, questo è scontato, il vero lavoro del fotogiornalista è riuscire a entrare nella situazione. Devi riuscire a entrare in contatto con le persone, convincerle, viverle per un po’ per entrare nel vivo del progetto. Se invece il progetto è su commissione di un giornale si cerca di capire insieme su quale punto focalizzarsi. Se infine si tratta di un’azienda è più complicato, bisogna ovviamente capire che tipo di comunicazione vogliono, l’approccio al tema diventa più delicato e sfaccettato ma è più interessante perché mi obbliga a rivedere un modus operandi diverso da quello personale.

Descrivici un progetto che ti ha coinvolto emotivamente.
Ci sono due progetti a cui sono particolarmente legato e sono rispettivamente uno dei primi e uno degli ultimi che ho realizzato. Il più recente è stato un reportage fotografico sulla situazione dei pazienti affetti da malattie rare in Europa. Il progetto è stato realizzato insieme alla Federazione Italiana Malati Rari Uniamo e supportato dall’azienda di biotecnologie farmaceutiche del gruppo Sanofi, Genzyme. Il nostro obiettivo era quello di rendere partecipe e consapevole del problema chi questo problema non lo conosce. Partendo da questo concetto ho girato l’Europa incontrando quasi 30 famiglie con persone affette da una patologia rara. È stato un viaggio incredibilmente emozionante ed è stato impagabile quello che queste persone mi hanno fatto provare. I pazienti affetti da patologie rare devono affrontare ogni giorno difficoltà inimmaginabili, eppure non c’è stata una famiglia che non mi abbia accolto con il sorriso e che non mi abbia stupito per la forza e la tenacia con cui affronta la situazione in cui si trova. Ho avuto la fortuna di vivere vari giorni con ognuna delle famiglie incontrate e sono diventato ogni volta parte di esse. Mi hanno accolto di volta in volta come un fratello, figlio, amico d’infanzia. Hanno condiviso con me i loro momenti più duri e quelli più felici, mi hanno permesso veramente di capire qual è la ricchezza dell’umanità. Quello che ho cercato di fare con questo progetto è stato trasmettere a chi non poteva essere lì con me quello che queste persone mi trasmettevano, la loro forza e positività nonostante le insormontabili difficoltà che si trovavano a dover affrontare ogni giorno.

Qual è il punto di vista che cerchi in una foto?
Nei miei servizi mi trovo a raccontare storie e situazioni tra le più disparate. Quello che cerco sempre è di realizzare una foto che non giudichi, ma che permetta allo spettatore di capire e comprendere il soggetto che sto ritraendo. Per fare questo ovviamente devo fare anch’io la stessa cosa, che si tratti degli omosessuali ugandesi ricercati dallo Stato o dei gruppi neonazisti svedesi. Penso che quello di cercare di comprendere il punto di vista dell’altro senza giudicarlo, anche quando questo è letteralmente all’opposto rispetto alle tue opinioni, sia uno dei migliori esercizi che mi sento di consigliare a chiunque.

Come diceva Roland Barthes c’è sempre il punctum che rende una foto unica, qual è il tuo?
Giustamente il punctum cambia sempre da foto a foto. Io penso che nelle mie foto il punctum ricada quasi sempre nel gesto del soggetto ritratto; penso che da quello si possano evincere il senso, l’atmosfera e la sensazione che voglio dare a quella particolare immagine.

Oggi hai scelto New York come casa, cosa rappresenta per un fotografo come te questa città?
New York rappresenta tante cose. Sicuramente non sono venuto qui per fotografarla, in tanti bravissimi l’anno già fatto. Ma sono venuto qui per affinare il mio sguardo in tutti i sensi e per trovare nuovi stimoli per il mio lavoro. Ultimamente molte aziende hanno cominciato ad utilizzare il linguaggio reportagistico per raccontare il proprio lavoro o i temi che hanno a cuore, anche per rafforzare la propria credibilità con un linguaggio non immediatamente pubblicitario. Questo è qualcosa che mi affascina molto e sicuramente questa città è il luogo migliore al mondo per poter affinare questo tipo di racconto.