Federico Badaloni – La user experience attraverso l’architettura della comunicazione
Il nuovo ecosistema dell’informazione nel libro del responsabile Architettura dell’Informazione della Divisione Digitale di Gruppo Editoriale l’Espresso
Segmentare il processo di comunicazione per comprendere meglio i meccanismi che la governano, alla luce delle grandi evoluzioni comunicative in atto negli ultimi vent’anni. Federico Badaloni, architetto dell’informazione e giornalista, ci presenta il suo ultimo libro “Architettura della comunicazione. Progettare i nuovi ecosistemi dell’informazione”, un manuale per chi vuole costruire l’esperienza dell’utente on line il più vicina possibile alle sue esigenze.
Da dove nasce questo libro?
Per quanto possa sembrare difficile da comprendere ad uno sguardo superficiale, l’intero ambiente che veicola il modo in cui comunichiamo è cambiato. Sono cambiate le strutture che lo regolano e dunque sono profondamente diverse oggi le dinamiche di generazione, scoperta e propagazione di un contenuto. È cambiato il modo in cui scegliamo di informarci ed è cambiato il modo in cui consideriamo un autore degno della nostra fiducia. La qualità della nostra vita dipende dalla qualità delle informazioni che riceviamo. Tuttavia sono proprio i professionisti della comunicazione quelli più resistenti al cambiamento imposto da questo nuovo stato di cose e molti di loro continuano a comunicare attraverso tecniche e strategie del “vecchio mondo”. Il successo dei corsi e dei seminari sulla comunicazione digitale, che sono sempre più spesso chiamato a tenere, mi ha spinto a scrivere una sorta di saggio-manuale che illustri i principi fondamentali di questo nuovo mondo della comunicazione con un linguaggio piano, non tecnico, che consentisse a tutti i partecipanti di approfondire, ripassare, dirimere eventuali dubbi e magari anche di spiegare a propria volta ad amici e colleghi le cose imparate.
Cosa è un ecosistema dell’informazione?
Spesso noi architetti dell’informazione ci riferiamo al contesto in cui comunichiamo come un “ambiente”: il web, una app, ma anche un videogioco sono esempi di questi ambienti.
In senso un po’ più tecnico, questi ambienti sono “sistemi”. Un sistema è un ambiente che svolge una funzione principale. Ad esempio WordPress è un sistema per pubblicare facilmente un proprio blog o un sito. I biologi chiamano “ecosistema” un sistema la cui funzione principale è garantire un continuo scambio di energia e che trova il suo equilibrio in questo incessante dinamismo. Oggi i diversi sistemi della comunicazione ai quali eravamo abituati sono confluiti in un unico immenso sistema, che chiamiamo “rete”. Questo sistema è un “ecosistema” proprio perché – in analogia con il suo corrispondente biologico – garantisce un continuo ricircolo di informazione e trova il suo equilibrio in un costante cambiamento.
Come è cambiata l’architettura della comunicazione da quando è arrivata la rete?
In estrema sintesi, quello che è cambiato è il modo di mettere in relazione le informazioni. Prima eravamo abituati a metterle in relazione disponendole lungo un asse, cioè seguendo una direzione prestabilita, come accadeva in un giornale, ma anche in un telegiornale, in una trasmissione radiofonica, in un film. Oggi la struttura portante non è più lineare, ma reticolare. Questo significa, ad esempio, che non è possibile prevedere i percorsi che gli utenti seguiranno all’interno di un sito e quindi l’ordine secondo il quale conosceranno i contenuti che abbiamo prodotto per loro. Per esprimere, ad esempio, il proprio giudizio sulla rilevanza di diversi contenuti, un giornalista dovrà dunque utilizzare delle tecniche differenti dal passato.
Parla di rete come un “grafo”: qual è l’implicazione pratica?
Il grafo è un concetto preso in prestito ai matematici. Si tratta di un modello formale in cui esistono “nodi” e “archi” che li collegano. Abbiamo scoperto che le caratteristiche e le dinamiche che regolano i percorsi all’interno di un grafo ci aiutano a comprendere con grande immediatezza il modo in cui comunicare in maniera efficace, organizzare il lavoro di chi produce e cura contenuti, comprendere il modo in cui le persone ridistribuiscono ciò che è stato comunicato loro.
È possibile definire un nuovo modello, un criterio che ci consenta di continuare a comunicare ciò che riteniamo rilevante in questo nuovo ambiente?
La risposta a questa domanda è il cuore del libro che ho scritto. Io credo che sia possibile definire un modello e che il segreto stia nella capacità di comunicare modulando opportunamente l’intensità degli archi che conducono le persone da un nodo ad un altro. Quando navighiamo in un sito, ad esempio, percepiamo alcune informazioni come più fortemente collegate di altre e attribuiamo lo stesso giudizio alle diverse pagine che man mano scopriamo nel corso della nostra esperienza di navigazione. Oggi un professionista della comunicazione deve essere in grado di progettare questo tipo di esperienza con grande perizia, perché è da essa che un utente trae il senso complessivo di una comunicazione, così come in passato traeva questo senso nel mettere in relazione le diverse informazioni che si susseguivano nello sfoglio di un giornale o lungo la scaletta di un telegiornale.
Lei parla di funzioni, intese come formule: funzione che definisce il prodotto, il suo significato, il giudizio sullo stesso. Cosa intende e come interviene in un processo comunicativo destinato a vendere in rete?
La funzione è il modo in cui un sistema ci conduce alla soluzione di un bisogno. Pensiamo ad esempio ad Airbnb. Si tratta di uno dei sistemi più estesi ed efficienti per trovare alloggio, eppure Airbnb non possiede nessuno degli alloggi utilizzati nel sistema. Oggi molti business che sono sorti in rete hanno avuto successo proprio perché si sono concentrati sui bisogni delle persone e sulla funzione che avrebbero potuto svolgere per soddisfarli. Ragionare in termini funzionali è la chiave per liberare la creatività e inventare nuove forme di business. Ad un particolare metodo di progettazione, che ho chiamato “progettazione funzionale” è dedicato l’ultimo capitolo del libro.
Cosa è necessario oggi per comprendere il significato di un messaggio? Quali sono i percorsi possibili?
Comprendere è porre in relazione le informazioni che raggiungono i nostri sensi in un certo ambiente con quelle che abbiamo appreso in passato. Mettere assieme queste informazioni è come assemblare un puzzle. Riusciamo nell’impresa attraverso un processo di tentativi ed errori, spesso molto rapido. Risolvere questo puzzle si configura nella nostra memoria come “un’esperienza”. Il nostro giudizio sul valore di questa esperienza è ciò che chiamiamo “il senso”, cioè il significato di un insieme di informazioni.
Ci sono casi in cui tutto questo processo avviene con un solo colpo d’occhio, come quando ci troviamo di fronte alla pagina di un giornale. Altre volte dobbiamo percorrere degli ambienti informativi più complessi, come un sito web, un’applicazione o un ambiente sia fisico che digitale, come un aeroporto o uno spazio espositivo.
L’architettura dell’informazione, lo user experience design servono proprio a definire quale sarà il migliore percorso possibile da far compiere alle persone per capire il senso del messaggio che vogliamo lanciare loro.
“L’utente medio è morto, ma gli altri stanno benone” recita il titolo di un paragrafo. Chi sono i due e che valore hanno sul web?
Quando gli utenti di un prodotto del mondo della comunicazione broadcast aumentano di numero, essi convergono verso una sorta di media. Tutte le tecniche di ricerca di mercato che mirano a definire le caratteristiche di questo utente medio hanno senso in questo contesto perché ci aiutano a migliorare la nostra offerta. In un ambiente reticolare avviene che quando un prodotto o un servizio hanno successo, gli utenti di questo prodotto o di questo servizio tendono a radunarsi in polarità spesso anche molto differenti fra loro. Pochi utenti generano un grande valore su Wikipedia, ad esempio, e molti utenti non ne generano alcuno, ma fruiscono semplicemente del servizio. Si tratta di un fenomeno che segue un andamento definito “distribuzione a legge di potenza”. Tenerne conto nella progettazione degli ambienti informativi e nella gestione quotidiana è essenziale.
La rete è sì un mare indistinto di informazioni, ma si riesce ad essere anche molto consonanti: da un punto di vista di marketing questa consonanza tra informazione e utente è un bene, ma lei non sembra essere d’accordo con questa tesi. Perché?
Nella rete che conosciamo oggi, è molto più probabile essere raggiunti da informazioni che confermano ciò che già pensiamo, piuttosto che da informazioni contrarie. Questo fenomeno, sul quale è uscito recentemente un bel libro di Walter Quattrociocchi intitolato “Misinformation”, limita molto la nostra possibilità di scoperta, di apertura, di evoluzione del pensiero. Chiaramente sono preoccupato dei riflessi che tutto questo ha a livello politico e sociale e francamente dubito, che questa sia una situazione che possa andar bene a chi si occupa di marketing. Quando mancano ibridazioni culturali, manca la possibilità di evolvere una cultura, il che significa anche un mercato.
Ha qualche case study che rispecchia l’architettura della comunicazione di cui lei parla?
L’ultima cosa alla quale ho lavorato è stata la homepage di Repubblica.it, ma sono decine i progetti editoriali più o meno grandi che ci vedono occupati ogni mese. Da qualche anno a questa parte, il metodo di lavoro si è consolidato: partiamo dall’individuazione dei bisogni delle persone. Poi analizziamo lo stato delle cose che già esistono, conduciamo un’analisi dei bisogni e degli obiettivi interni (di business, ad esempio, ma anche più genericamente di comunicazione) e chiudiamo questa prima fase con una lista dei constraints, cioè dei vincoli
che abbiamo da un punto di vista tecnologico, finanziario, temporale, redazionale. Finita questa fase passiamo a definire il progetto vero e proprio, che è poi una sintesi di tutto
questo, cioè il tentativo di rispondere nel migliore dei modi ai bisogni esterni e interni tenendo conto dei nostri vincoli.