Evoluzione delle mansioni nel rapporto di lavoro
Le modifiche alla disciplina delle mansioni introdotte dal Jobs Act chiariscono che le mansioni assegnate al lavoratore non sono più un limite invalicabile per il datore di lavoro. In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali incidente sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni differenti e non per forza equivalenti.
Il Jobs Act ha introdotto alcune novità di cui poco si è parlato, eclissate dalla maggiore attrattiva mediatica esercitata dalla riorganizzazione dei contratti di lavoro e dalla revisione dell’art. 18. Eppure tra queste vi è la nuova disciplina delle mansioni che risulta essere una piacevole scoperta, andando a modificare aspetti di sicuro interesse. Una rapida analisi sul tema richiama la rigidità con la quale venivano gestite le mansioni dei dipendenti nel rapporto di lavoro, tanto che ogni azienda si trovava costretta a porre la massima attenzione a ogni operazione organizzativa. Per tal motivo la variazione di mansioni ha generato nel tempo notevoli contenziosi, sulla scorta di una fonte regolatrice rappresentata dall’art. 2103 del codice civile che terminava proprio con un laconico “ogni patto contrario è nullo”, tradotto: una volta assegnata una mansione quella sarà per sempre… o quasi.
Anche passando per la volontà condivisa con il lavoratore, fino all’espressa richiesta di quest’ultimo, le variazioni non erano attuabili se non tramite precise procedure assistite (leggasi: lunghe, dispendiose ed incerte). È evidente che in un tessuto produttivo come quello del nostro Paese tanto più piccola è l’azienda, tanto maggiore sarà la necessità di occupare personale flessibile e adattabile alle diverse esigenze produttive che per tempi e risultati spesso risultano imprevedibili. Inevitabile che una previsione, quale quella regolata dal sistema previgente, ingessasse il sistema aziendale.
È con sommo piacere che, a braccia aperte, accogliamo quindi la revisione dell’art. 2013 del cc ad opera dell’art. 3 del D.lgs 81/2015, perché la flessibilità di cui ha bisogno il Paese non è solo quella in entrata e in uscita (esterna) ma è anche quella interna, quotidiana e non prevedibile. Quella cioè che permette di adattare la popolazione già stabilmente occupata alle esigenze che via via bussano alle porte delle aziende. La nuova previsione permette finalmente di aprire quelle porte.
L’aspetto positivo è proprio nella declinazione del nuovo articolo dove si chiarisce che: in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali incidente sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore. Certo, la possibilità offerta è ben ampia, in quanto in caso di riorganizzazione il lavoratore potrà vedersi assegnare mansioni:
• nuove, quindi diverse;
• volendo, anche inferiori;
• ma, soprattutto, a discrezione del datore di lavoro.
Quindi non sarà necessario alcun passaggio autorizzativo, e alcun rischio per l’azienda potrà manifestarsi a patto di rendere effettiva la riorganizzazione. È proprio quest’ultimo il requisito maestro. Gli stessi contratti collettivi di qualsiasi livello potranno definire opportunità ulteriori rispetto alla riorganizzazione, per legittimare la variazione delle mansioni. Ennesima spinta ad innescare la stagione della contrattazione aziendale che francamente mi rallegra e mi posiziona impaziente sui blocchi di partenza.
Tutto oro? Non proprio, emergono comunque sottesi profili di criticità legati agli aspetti della formazione preventiva, nonché mine antiuomo legate agli effetti della “novella” sulla flessibilità esterna (patti di prova e repechage), ma questa è un’altra storia che non deve offuscare la mia odierna vena positiva.