ECOLOGIA E TECNOLOGIA
di Stefano Moriggi
Quando l’inquinamento linguistico è (anche) peggio di quello atmosferico…
“Purtroppo il problema ecologico, come tutti i problemi seri del nostro tempo, è uno di quelli che può essere e sarà sfruttato da persone più o meno prive di scrupoli” – così Karl Raimund Popper esordiva, il 5 novembre del 1991 nella Haus im Wald, di fronte alla platea dell’Unione Industria Automobilistica Tedesca (VDA). Era stato invitato dalla dottoressa Emmerich, presidente dell’Unione, a confrontarsi con un tema tanto attuale quanto scottante: Tecnologia ed etica. Ma quanti, udito tale incipit, si prefiguravano una vibrata riflessione “in salsa verde” contro un progresso invadente e irrispettoso degli equilibri della natura, dovette presto ricredersi.
Ovviamente Popper non ignorava, né sottovalutava, i rischi – locali e globali – di una mancata sensibilità ecologica – e tanto meno i danni irrimediabili a cui il pianeta tutto sarebbe andato in contro in conseguenza di scelte e condotte, politiche ed economiche, devastanti. E, forse anche per questi motivi, quella sera decise di spingere l’esercizio della critica là dove pochi avrebbero osato, scegliendo quale oggetto della sua prolusione un bersaglio inatteso e sorprendente per i suoi uditori.
Chi poteva immaginare, infatti, che tra le “persone più o meno prive di scrupoli” avrebbe riservato un posto d’onore a certi “ecologisti militanti” ?
Si sa, i pensatori spesso non sanno rinunciare al gusto del paradosso; ma a ben vedere questa volta l’epistemologo austriaco aveva preferito la via della provocazione. Provocazione, certo! Ma nel senso etimologico del pro-vocare. L’intenzione di Sir Karl era appunto quella di richiamare l’attenzione su un problema (solo apparentemente!) contraddittorio. Ovvero, voleva invitare a pensare in materia di ecologia al di là del “buon senso comune”, cercando di mostrare come una delle più pericolose insidie culturali a un ambientalismo critico e consapevole possa venire proprio da una diffusa e subdola ideologia della natura. Ma procediamo per gradi e cediamo nuovamente la parola al teorico della “società aperta”.
“È inevitabile che sulla nostra Terra sovrappopolata noi facciamo permanentemente tutti gli errori ecologici possibili, ed è innegabile che vigilare è necessario […]. Ma è altrettanto chiaro che in questo campo non si ottiene nulla senza l’aiuto delle scienze naturali e della tecnica”. Popper intendeva polemicamente stanare l’inconsistenza delle tesi di tutti coloro per cui le condizioni presenti e le sorti future dell’ambiente andavano interpretate all’interno della contrapposizione (a loro giudizio) rovinosa: quella tra natura e tecnologia – tra l’ordine della prima e la trasgressione di quell’ordine (e dei valori a esso connessi) da parte della seconda. E Sir Karl fa nomi e cognomi dei “tecnofobi” che ha in mente: “perché – si chiede infatti – l’ostilità dei Verdi tedeschi alla tecnica e alla scienza della natura è così grande, mentre in altri paesi ha un ruolo – quando lo ha – del tutto insignificante?”. E la risposta rasenta l’autocritica: “Perché i tedeschi si fanno impressionare dai loro filosofi anche quando dicono delle assurdità incomprensibili”.
Ora, che il filosofi (e non solo quelli tedeschi) possano dire assurdità è una eventualità che non sorprende neppure il filosofo che firma questo articolo… Tuttavia, occorre andare in fondo a tale questione, apparentemente astratta e teorica, ma invece ben più profonda e concreta di quanto a prima vista non sembri. Seguiamo allora Popper ancora per un tratto nella sua invettiva contro l’inadeguatezza di alcuni pensatori… “I filosofi solitamente non capiscono nulla di tecnologia e di scienza della natura; e non è che in Inghilterra le cose vadano meglio che in Germania […] Analogo è stato il disprezzo dei filosofi di Oxford per la tecnologia […] Per loro tutto questo era ‘glorified plumping’, la ‘glorificazione dello stagnaio’. Così si poteva rimarcare la propria superiorità di fronte all’industria nascente, alla tecnologia e alla scienza naturale”. Alla amara diagnosi dell’epistemologo viennese potremmo aggiungere che in Italia le cose non vanno molto meglio – visto che, anche da noi, è piuttosto nutrita la pletora di pensatori e umanisti vari che, quanto meno sanno di scienza e tecnologia, tanto più le individuano come le matrici di ogni disastro naturale e morale.
E il punto è proprio questo: cosa è – e cosa può diventare – una filosofia incapace di dialogare alla pari con la scienza e la tecnologia? E a cosa può ridursi un esercizio del pensiero che non sappia calarsi (per ignoranza e incompetenza) nella pieghe di problemi e questioni emersi dall’evoluzione della scienza e dall’innovazione della tecnologia?
Difficile immaginare qualcosa di più inconsistente rispetto ad astruse chiacchiere su principi e valori scollati da un mondo sempre più complesso e sfaccettato. Queste chiacchiere possono anche essere ben costruite e ancor meglio retoricamente confezionate. E possono persino funzionare come efficaci rassicurazioni per sublimare o esorcizzare i temi che scuotono più in profondità le nostre coscienze. Insomma, giochi di parole con funzione anestetica.
Ma – come notava ancora Popper quella sera alla Haus im Wald – “l’inquinamento linguistico che ne nasce è perlomeno altrettanto grave quanto quello atmosferico”. A meno che anche le chiacchiere infondate di chi accusa scienza e tecnica senza conoscerla, trasformando così la “natura” in un feticcio culturale, non vengano esse stesse sottoposte alla pratica spregiudicata e severa di un pensiero davvero critico e competente. Qualcosa del genere cercò di fare già John Stuart Mill che – già nel XIX secolo – aveva intuito i rischi insiti in una ideologia della natura. Negli anni Cinquanta dell’Ottocento, infatti, scriveva: “Le parole Natura, naturale, e il gruppo di termini che ne derivano o che ne hanno affine l’etimologia, hanno sempre avuto in ogni epoca grande importanza per il pensiero, ed hanno esercitato una forte presa sui sentimenti dell’umanità”. Detto questo, il logico inglese aggiungeva: “Le parole ora dette si sono venute mescolando a sì numerose associazioni estranee, la maggior parte delle quali di un carattere assai forte e tenace, che hanno fatto sorgere – ed anzi ne sono diventati i simboli – dei sentimenti non giustificati in alcun modo dal significato originale dei termini”. E, non bastasse, “questi sentimenti hanno trasformato il termine Natura in una delle fonti più copiose di cattivo gusto, di falsa filosofia, di falsa moralità, e perfino di cattive leggi”.
Rieccoci dunque alla questione di fondo: quale “coscienza ecologica” potrebbe mai emergere da un vocabolario tanto corrotto? Quali riflessioni e provvedimenti potrebbero mai scaturire da dibattiti e confronti basati su termini e concetti tanto contaminati?
È per ragioni come queste che – ieri come oggi – tra i compiti di un filosofo degno di questo nome continua a esserci quello di “bonificare” il linguaggio dai falsi miti e dalle vere superstizioni, anche grazie a un continuo e serrato dialogo con scienza e tecnologia. Senza una ecologia del linguaggio è difficile pensare a una cultura e a una sensibilità dell’ambiente davvero informate. E in questa direzione muoveva lo sforzo di Mill, quando provò a recuperare un “senso originario” del termine Natura. Uno sforzo che trovò nella logica e nella pratica scientifica non due antagoniste, ma le migliori alleate per venire a capo della questione. Vediamo come…
Anzitutto, John iniziò azzardando una definizione: “Natura è la somma di tutti i fenomeni insieme con le cause che li producono, includendo non soltanto tutto ciò che accade, ma anche tutto ciò che è suscettibile di accadere”. Fatto ciò, da buon induttivista, indicò come procedere nella comprensione di tali fenomeni naturali facendo leva sul concetto di “regolarità” per giungere infine a quello di “legge”: “Essendosi trovato che tutti i fenomeni, sufficientemente esaminati, hanno luogo con regolarità […], gli uomini sono stati in grado di accertare – sia mediante l’osservazione diretta, che mediante processi di ragionamento basati sull’osservazione – le condizioni del verificarsi di molti fenomeni. […] Una volta scoperte, esse possono venir enunciate in proposizioni generali, che vengono chiamate leggi di quel particolare fenomeno, e anche, in modo più generale Leggi di Natura”. So far so good, potremmo dire… Ma il filosofo inglese ben sapeva che la comprensione della natura (e del sostantivo natura) sub specie logica non poteva bastare. Era, infatti, ben consapevole delle molte altre accezioni del termine, a prima vista, non contenibili nell’equazione: natura è tutto ciò che posso (o riesco) a esprimere nei termini di legge di natura. Per esempio, natura “nella comune forma di discorso viene contrapposta all’Arte”, così come “il naturale all’artificiale”. E, a ben vedere, è proprio in questa distinzione che certo ecologismo trova le premesse per contrapporre ambiente e tecno-scienza. Ma Mill smonta l’obiezione, inanellando una successione di efficaci esempi: “una nave sta a galla per le stesse leggi del peso specifico e dell’equilibrio che fanno galleggiare un albero sradicato dal vento e gettato nell’acqua. Il grano che gli uomini coltivano per cibarsene, cresce e produce le spighe per le stesse leggi della vegetazione che fanno fiorire e fruttificare la fragola di montagna”. E così via… In altre parole, se le “leggi di natura” che spiegano ciò che è ritenuto naturale e ciò che invece viene classificato come artificiale sono le stesse, vuol dire che questa stessa distinzione è convenzionale, culturale. Ovvero, che non poggia su alcuna evidenza empirica o razionale. Anche perché – precisa il filosofo inglese – non dobbiamo dimenticare che “persino la volizione [umana] che progetta, l’intelligenza che organizza e la forza muscolare che esegue questi movimenti sono esse stesse poteri della Natura”. E aggiunge: “l’uomo non ha infatti altro potere che seguire le leggi di natura; tutte le sue azioni sono compiute o per mezzo, o in obbedienza, di una o di molte fra le leggi fisiche o mentali della natura”. Pertanto, se natura è tutto ciò che posso (o riesco) a esprimere nei termini di legge di natura, pare evidente che dietro ogni tentativo di innalzare una qualche idea di natura “a un banco di prova del giusto e dell’ingiusto” è un’operazione vuota, ingenua, quando non (appunto!) ideologica.
Ed è proprio in quest’ottica – quella di Mill, articolata poi da Popper – che propongo un esercizio: immaginare un’ecologia che faccia a meno del termine natura. Anche la mia potrà sembrare ad alcuni una provocazione. Si tratta invece di un esercizio funzionale a ponderare in maniera analitica e critica le scelte e i provvedimenti che riguardano l’ambiente senza cadere (più o meno consapevolmente) in qualcuna delle insidiose incrostazioni semantiche che continuano a distorcere il concetto di natura. Tale esercizio, infatti, attraverso una auspicabile “bonifica” del proprio vocabolario, ci consegnerebbe, senza più alibi, il peso della nostra responsabilità. In questo modo, infatti, non ce la si potrebbe più cavare sostenendo una visione del mondo (in generale) – o prendendo una decisione (in particolare) – in virtù di una sua presunta “naturalità”. Al contrario, si dovrebbero soppesare, di volta in volta, rischi e opportunità per un ambiente di cui siamo parte integrante e in cui dobbiamo imparare a vivere con una consapevolezza critica che non non può esistere in assenza una preventiva ecologia delle parole.
Ragion per cui – anche concentrandomi, più nello specifico, sulle posizioni radicali e dogmatiche di incerto ambientalismo radical chic made in Italy – sottoscrivo in pieno l’invito di Sir Karl Popper: “Vi prego di non credere che dietro all’attacco generale alla scienza e alla tecnica si nasconda qualcosa di serio o addirittura di filosoficamente profondo”.