Digitalizzare la scuola?
di Stefano Moriggi
Sì, ma priorità alla formazione e alla progettazione di nuovi spazi di apprendimento.
C’è ancora chi è convinto che per traghettare al digitale la scuola italiana sia sufficiente (e comunque prioritario) procedere all’acquisizione di dispositivi tecnologici. Per alcuni osservatori – per non dire di certi decisori politici – la modernizzazione e l’aggiornamento della didattica si compirebbe, appunto, investendo la gran parte delle esigue risorse disponibili in computer, tablet, video proiettori e lavagne interattive multimediali (LIM), lasciando poi ai singoli insegnanti e alle loro competenze digitali la responsabilità di integrare il valore aggiunto della tecnologia alle tradizionali lezioni frontali costruite e articolate (pressoché esclusivamente) attorno al supporto cartaceo del libro.
E se invece l’acquisto dei device fosse, paradossalmente, l’ultimo dei problemi? Mi rendo conto che questa mia potrebbe persino suonare come una provocazione. Eppure, anche dando solo una rapida occhiata ad alcuni dati – da tempo di pubblico dominio – si potrebbe facilmente intuire l’impraticabilità e l’insensatezza di tutti quegli investimenti che, di fatto, tendono a ridurre il processo di transizione al digitale alla fornitura di un corredo tecnologico da giustapporre sic et simpliciter a metodologie e logiche gutemberghiane.
Ma procediamo per gradi, iniziando un percorso – di cui questo articolo costituisce solo la prima di tre tappe – che consenta di evidenziare, seppure per sommi capi, come la tecnologia potrà contribuire da più punti di vista a un’evoluzione degli stili di insegnamento; oltre che a incentivare (specie a livello universitario, ma non solo: le scuole professionali, per esempio, costituirebbero uno straordinario laboratorio di sperimentazione della didattica digitalmente aumentata, oltre che una preziosa risorsa da riqualificare!) lo sviluppo di quelle “competenze trasversali” funzionali ad agevolare le interazioni tra le nuove generazioni al termine del percorso formativo e il mondo delle imprese.
Un primo aspetto problematico da tener presente per imbastire un progetto sensato di transizione al digitale dell’istituzione scolastica è rappresentato dal cosiddetto digital divide: secondo i dati ISTAT (2012) in Italia, l’accesso a internet di utenti con un’età superiore ai 45 anni è di poco superiore al 50 per cento, mentre negli Stati Uniti la percentuale relativa alla stessa categoria di individui sale fino a sfiorare l’80 per cento. E il divario rispetto agli omologhi internauti a stelle e strisce aumenta ulteriormente se si considera invece la popolazione compresa tra i 55 e i 59 anni. Se, infatti, entro i nostri confini ci si ferma a un 42 per cento di utenti, negli USA invece si raggiunge il 74 per cento (più precisamente, la popolazione statunitense presa in esame va dai 50 ai 64 anni, Pew Internet, 2012). Basterebbero questi numeri per intuire l’urgenza di un intervento formativo che, però, come avremo modo di ribadire più avanti, non si riduca a banali corsi di aggiornamento sufficienti a trasmettere i rudimenti necessari per utilizzare in aula un proiettore elettronico o una lavagna multimediale. Tuttavia, con il preciso intento di palesare ulteriormente l’entità del gap che separa l’Italia dalla maggioranza dalla maggior parte dei paesi più evoluti (e gli insegnanti italiani dai loro studenti sempre più abituati a relazionarsi con la tecnologia e i suoi linguaggi), aggiungerò qualche altra considerazione che possa fornire una idea realistica del contesto a partire dal quale andrebbe pensata, in termini culturali, l’implementazione tecnologica degli approcci didattici. Molti addetti ai lavori, giustamente, insistono nel ricordare che negli ultimi due decenni sono mancati gli investimenti in infrastrutture – il che, come conseguenza, non ha consentito (in primis materialmente!) di impostare alcun tipo di politica scolastica orientata ad assimilare risorse e opportunità offerte dai nuovi media. Proprio in questa direzione, di recente, il professor Paolo Ferri – docente di Teorie e tecniche dei nuovi media presso l’Università di Milano Bicocca – faceva notare che “attualmente, al di là di dichiarazioni di intenti più o meno promettenti, possiamo solo registrare la realizzazione di episodici e disomogenei interventi di formazione del personale insegnante e tecnico-amministrativo della scuola”. E, per portare un caso concreto, citava una ricerca condotta (2012) dall’Università Cattolica di Milano dalla quale si evince che in Italia: a) solo il 7% delle scuole può vantare una connessione a internet tale da abilitare una didattica tecnologicamente aumentata in ciascuna delle loro classi; b) la percentuale sale al 10,96 se si considerano le scuole in cui ci si connette alla rete esclusivamente in alcune aule o laboratori debitamente attrezzati; c) per quanto concerne gli istituti secondari, quelli interamente connessi raggiungono il 13%.
Anche questi, effettivamente, sono numeri che dovrebbero far riflettere specie se si tiene conto che nel Regno Unito ormai il 100% delle scuole è in grado di assicurare una connessione sufficiente e affidabile in ogni aula. E soprattutto se si pensa che, secondo le stime indipendentemente realizzate dall’Università Bocconi e dal Politecnico di Milano, un investimento compreso tra i 7 e i 9 miliardi di euro sarebbe sufficiente per fornire la banda larga e i dispositivi necessari a tutte scuole pubbliche del paese con livelli di qualità pari a quelli d’Oltremanica.
Tuttavia, è fondamentale ricordare – e Ferri lo sa bene – che la disattenzione al “problema-scuola” in Italia non si misura solo attraverso parametri economici. Maggiore rilievo (anche mediatico) meriterebbe, infatti, proprio quel dibattito – troppo spesso riservato a specialisti e addetti ai lavori – dal quale emerge in modo inequivocabile come lo sviluppo di nuovi modelli di didattica tecnologicamente aumentata possa realisticamente svilupparsi solo a condizione di riprogettare anche spazi e ruoli all’interno dell’ambiente scolastico.
E invece l’inconsapevolezza culturale dilagante, aggiunta a una diffidenza tanto diffusa quanto immotivata verso la tecnologia, ha portato il sistema dell’istruzione formale italiana a rivaleggiare – rispetto ai modi e ai tempi della digitalizzazione – con Grecia e Portogallo, che sono (non a caso!) i fanalini di coda delle classifiche europee dell’accesso a internet. Alle osservazioni di Ferri, pertanto, aggiungerei un dato ulteriore che il lettore dovrebbe incrociare con quelli già forniti qualche riga sopra, relativi al modesto accesso alla rete degli italiani ultra-cinquantenni: si tenga conto, infatti, che l’età media degli insegnanti del nostro paese è compresa tra i 54 e 56 anni. Non dovrebbe dunque sorprendere la scarsa alfabetizzazione tecnologica di molti di loro, come del resto le difficoltà che quotidianamente si trovano ad affrontare in aula per cercare di gestire quel digital divide che ci separa dai sistemi formativi dei paesi sviluppati.
Ma, come accennavo, non si tratta solo di “digitalizzare i docenti”, proponendo loro corsi di aggiornamento informatico; quanto di analizzare e affrontare un ben più radicale slittamento di pratiche cognitive e di etiche condivise innescato dalla progressiva diffusione dei nuovi media.
Più volte – anche dalle pagine di Logyn – mi è capitato di sottolineare quanto l’evoluzione delle macchine costituisca una prospettiva privilegiata per comprendere come e quanto l’essere umano, nella sua lunga storia, abbia tecnologicamente rimodellato modi, tempi e significati del suo “stare al mondo”: i nuovi media non fanno certo eccezione a tale complessità tipica rapporto tra soggetto, strumento e ambiente. E, se non altro per questa ragione, bisognerebbe dunque iniziare ad analizzare più approfonditamente le dinamiche attraverso cui le tecnologie della comunicazione digitale hanno contribuito all’affermazione tra le nuove generazioni (nate in contesti – le loro stesse case – digitalmente aumentati) di un modello di comunicazione educativa orientato alla partecipazione attiva degli studenti e alla condivisione degli obiettivi didattici.
Come noto, già dal 2001- grazie a una fortunata definizione di Marc Prensky – si è iniziato a parlare di “nativi digitali” in riferimento a coorti di bambini e pre-adolescenti nati e cresciuti in presenza degli schermi interattivi. E nel 2008, alla luce di una pionieristica indagine del Becta (http://about.becta.org.uk/), si era già compreso che, “considerati nel loro insieme, gli effetti combinati della rivoluzione digitale e del Web 2.0 sui sistemi educativi si concretizzano in una radicale trasformazione che tende a riorientare i sistemi di istruzione/apprendimento verso una struttura didattica che privilegia un approccio centrato sullo studente”. Non vi è dubbio che l’avanzamento delle ricerche in materia abbia reso datata e insufficiente la definizione di Prensky, ma il suo merito – come, del resto, quello dell’indagine Becta – è stato (e continua a essere) di avere intuito (insieme ad altri) la mutazione antropologica in corso; ovvero – lo ribadisco – l’emergenza di inediti stili cognitivi a fronte dei quali sarebbe stato necessario già da tempo un profondo ripensamento delle strategie e degli strumenti didattici utilizzabili dentro e fuori dall’aula scolastica.
E’ scontato dire che le macchine servano nella cosiddetta “Scuola 2.0”, ma ritenere che la transizione al digitale consista nell’acquisire tecnologia, trascurando 1) la formazione dei docenti e – come si vedrà tra poco – 2) la riprogettazione dello spazio didattico è sintomo di una preoccupante incomprensione del fenomeno in questione. Comprendere le logiche di fondo, e dunque i nuovi abiti concettuali propri dell’ontologia sociale determinata dai media digitali, implica e impone, infatti, anche una riflessione su come debba cambiare un ambiente al fine di ospitare le nuove strategie didattiche in grado di intercettare gli stili di apprendimento dei nativi digitali.
La tendenza a imparare ricercando ed esplorando, la consuetudine a una comunicazione multicodicale (testo, video, audio, ecc.), la accentuata indole cooperativa e molte altre caratteristiche individuate come prerogative distintive di queste nuove generazioni (oltre a quelle sopra ricordate) non possono più convivere con una istruzione erogata in classi tradizionali, tramite lezioni frontali incentrate sull’autorità del testo e su nozioni da assimilare individualmente per “assorbimento”. La “rivoluzione in aula” potrà dunque cominciare davvero solo quando l’introduzione della tecnologia verrà accompagnata da un progetto che sappia “spazializzare” le dinamiche e le caratteristiche pratiche e concettuali delle nuove forme di interazione, collaborazione e apprendimento.
Realizzare queste idee implica pertanto la progressiva evoluzione delle aule “storiche” in spazi (reali e virtuali) simili a laboratori, in grado di stimolare gli alunni a trasformarsi in “piccoli ricercatori”. Esistono diversi modelli – e se ne parlerà più diffusamente nella prossima rubrica – per tradurre in atto questa urgenza, ma tutti condividono la necessità di incentivare una didattica (inter attiva e partecipata, funzionale anche a sviluppare abilità critiche e capacità di analisi difficilmente ottenibili in assenza di un progetto di insieme in grado di cogliere e affrontare, al di fuori di ogni ideologia politica o pedagogica, la complessità e l’importanza della posta in gioco.
Suscitare interesse e attenzione sui temi qui solo accennati credo sia il dovere di quanti ritengano che il futuro di un paese inizi a prendere forma proprio nelle aule delle proprie scuole.