Come sarà (pensata) la vita digitalizzata?

Come sarà (pensata) la vita digitalizzata?

di Stefano Moriggi
Il futuro può sorprendere e spiazzare, specie se non si riflette abbastanza su scienza e tecnica. Dalla meccanizzazione della società al Cluetrain Manifesto e oltre…

Il futuro è il tempo che non c’è. È la sfuggente dimensione che ci è data come orizzonte da pensare, da immaginare, da intuire. Alcuni, come noto, ancor oggi non rinunciano ad affidarsi a cialtroni senza speranza che nelle combinatorie dei tarocchi o nei riflessi di un sfera di cristallo dichiarano di saper leggere (o “correggere”) le sorti e i destini dei loro clienti (solventi). Tuttavia, al di là di questi rapporti, infantili da un lato e truffaldini dall’altro, con il tempo che verrà, è indubbio che la prefigurazione del futuro sia stata, da sempre, una necessità non solo sociale e politica, ma addirittura determinante alla sopravvivenza della specie.

Prevedere le mosse di un predatore o un periodo della siccità ha significato per la nostra specie imparare a sopravvivere in un mondo spesso ostile, non sempre confortevole e certo ricco di imprevisti. In quest’ottica, non si dovrebbe faticare più tanto nel concettualizzare scienza e tecnica come due tra gli “arnesi” più potenti e affidabili per anticipare modi e tempi degli accadimenti che saranno. Una consapevolezza antica, questa. Addirittura mitica. Prometeo, il titano che sottrasse il fuoco (immagine del sapere tecnico e scientifico) per donarlo agli uomini è, letteralmente, “colui che vede prima”; colui che agli uomini, in uno slancio di filantropia, fa dono degli strumenti con cui possono emularlo nella conoscenza delle cose mondane.

In questo senso, dunque, andrebbe intesa la scienza (e la cultura scientifica) come “prometeica”: ovvero, come quella costellazione di conoscenze, strumenti e metodologie che consentono di apprendere (e pertanto) di anticipare il corso e le manifestazioni di quella natura che – come diceva il filosofo greco Eraclito – “ama nascondersi”.
Al contrario, però, l’eredità mal compresa che di Prometeo è rimasta incrostata sull’idea di scienza e tecnica è essa stessa legata a una ideologica e impropria rilettura del mito stesso. Quella in cui – come nel caso di alcune interpretazioni del “Prometeo moderno”, ovvero il dottor Victor Frankenstein – è la tracotanza senza remore e scrupoli del ricercatore a connotare (e al contempo condannare) il progresso cinico e spregiudicato del sapere tecno-scientifico.

Una visione questa che, nella sua distorsione ideologica, ha prodotto – e per molti versi continua a produrre – non poche incomprensioni, non solo (e non tanto) nel giudizio storico di epoche in cui scienza e tecnica hanno cominciato nei fatti a ridefinire pesantemente la vita (privata e professionale) di individui e di intere comunità, fino a diventare a tutti gli effetti un fenomeno globale. Ma anche nei casi in cui – e, come si accennava, sono molti e tra loro diversi per scopo e profondità – gli esseri umani hanno provato a intuire la forma e la sostanza del futuro che di lì a qualche decennio (o secolo) li avrebbe attesi.

Per citare un esempio piuttosto noto, si farà riferimento al caso dell’artista e illustratore francese Jean-Marc Côte. Il quale, insieme ad alcuni suoi collaboratori, tra il 1899 e il 1900 realizzò una serie di illustrazioni che avrebbero dovuto, per l’appunto, rappresentare gli anni 2000. Nella fattispecie questa serie di 87 cromolitografie erano state commissionate da una società che produceva sigarette e sigari al fine di allegarle alle confezioni dei loro prodotti in occasione dell’imminente Esposizione Universale che avrebbe salutato sul suolo parigino l’inizio del XX secolo.
L’industria che le aveva commissionate pare che fallì prima di riuscire a stamparle su larga scala, tuttavia (e per fortuna) se ne è conservato una serie completa che, per un certo periodo, è appartenuta a celebre scrittore di fantascienza, Isaac Asimov.
Chi fosse interessato alle preziose descrizioni e riflessioni che l’autore delle fondamentali (tre) leggi della robotica dedicò alle immagini di Côte è rimandato al volume (di non immediato reperimento) FutureDays: A Nineteenth Century Vision of the Year 2000. Gli altri potrebbero comunque far caso a due aspetti. Il primo, forse più evidente, ma non altrettanto meditato: ovvero, quanto sia difficile immaginare il futuro (in ogni suo aspetto) senza coinvolgere direttamente l’evoluzione di scienza e tecnica. Il secondo, connesso al precedente e per certi versi ancora meno considerato; ovvero, il fatto che parlando di scienza e tecnica ci si concentri esclusivamente sulla loro per altro innegabile potenza e pervasività strumentale.

In effetti, dalla sartoria meccanizzata , all’allevamento intensivo fino alla scuola “elettrificata” e a quel “cinema fono-telegrafico” (in cui qualcuno ha saputo vedere una pionieristica anticipazione di Skype) si è insistito, appunto, su come il futuro sarebbe potuto essere disegnato entro i possibili (e a volte sconcertanti) progressi della tecno-scienza. La ricerca scientifica sarà sempre più in grado di produrre e (quindi) di avvalersi di strumenti che una volta diffusi riplasmeranno le nostre vite, le nostre consuetudini, e perché no anche le modalità (e forse la natura) delle nostre stesse relazioni.
Molti anche a partire dalle immagini in questione si sono soffermati, per esempio, su come e quanto le “macchine” saranno in grado di alleviare le fatiche fisiche e intellettuali dell’essere umano; altri invece hanno visto in tali futuribili scenari il rischio che le tecnologie avrebbero potuto drammaticamente sostituirsi all’uomo – non solo sottraendogli il lavoro; ma, nelle prospettive più fosche, prendendo addirittura il comando e il potere.

Speranze e paure che non sono molto cambiate, nella sostanza, dal periodo della meccanizzazione della società sognata da Jean-Marc Côte a quello attuale della sua digitalizzazione. Analogamente al passato, oggi ci si sforza di preconizzare cosa diventerà la nostra vita quando la transizione al digitale – se non ancora compiuta – avrà comunque (persino in Italia) fatto ulteriori e sensibili passi avanti tra effettive opportunità e potenziali rischi. Ma la prospettiva di soffermarsi solo sulla ricaduta strumentale delle tecnologie, senza avviare una più profonda riflessione su come gestire (culturalmente!) il nostro rapporto con loro, non ci mette al riparo da azzardate ingenuità.

Come è successo, a bene vedere, persino a un gruppo di grandi esperti del digitale. Nel 1999 (esattamente cento anni dopo l’iniziativa delle cartoline di Côte), David Weinberger, Rick Levine, Doc Searl e Christofer Locke stilarono 95 tesi confluite in quello che sarebbe diventato noto (sopratutto tra gli addetti ai lavori) come il Cluetrain Manifesto. Con grande anticipo e competente lungimiranza i quattro studiosi riuscirono a descrivere con buona approssimazione la rete dei social network. Non solo, si spinsero a descrivere nei dettagli quella “conversazione globale” in cui la stessa rete avrebbe progressivamente rimodellato la struttura e la natura dei mercati. Auspicavano una “sovversione delle gerarchie” innescata dalla stessa nuova tecnologia dilagante. La logica “unilaterale” produttore-consumatore – per citare un caso semplice e concreto – sarebbe andata progressivamente smantellandosi nella direzione di una conversazione democratica in cui la reputazione di prodotti e produttori si sarebbe ridefinita “dal basso”; così come, del resto, le aziende avrebbero dovuto reimpostare con la clientela un rapporto inedito: sia per quanto concerne la comunicazione sia per l’assistenza.

Molte di queste dinamiche, effettivamente, non tardarono ad annunciarsi e a prendere forma; ma a distanza di circa quindici anni da quelle prime tesi – che, per altro, nel numero e nello stile intenzionalmente evocavano quelle che Martin Lutero nel lontano 1517 affisse sui portali della Cattedrale di Wittenberg annunciando l’inizio della sua Riforma – per stessa ammissione dei loro estensori necessitavano di una revisione.

“Avevamo ragione, ma non del tutto” – avrebbe confessato Weinberger ai media (nuovi e vecchi), annunciando una serie di “121 nuove idee”. Ciò con cui non avevano fatto sufficientemente i conti “sta nell’aver sottovalutato le resistenze del mondo che la Rete ha travolto”. Ed è questa – prosegue Weinberger – la lezione per noi tutti, più attuale di molti dei pur attuali passaggi di entrambi i documenti, il vecchio e il nuovo [1999 e 2015]”. Una lezione “culturale”, appunto, più che “strumentale”. Essi stessi erano rimasti prigionieri dell’illusione che “la cyber-utopia potesse realizzarsi da sé, per un qualche destino o automatismo della tecnica, e non solo al costo di una terribile fatica individuale e collettiva”.
Come si accennava fin dall’inizio, l’auspicio o il terrore che l’evoluzione della tecnologia possa realizzare utopie (positive o negative), a prescindere dalla reazione e dall’impegno culturale di una società intera, è una ingenuità che non possiamo più permetterci. Ecco, sempre e di nuovo, l’esigenza di imparare a pensare con le macchine – in questo caso con la Rete. Nel senso dell’urgenza di lavorare a un progetto di cittadinanza attiva che consenta di comprendere a fondo le “regole” di una esistenza sempre più digitalizzata. Ma attenzione: nessun serio progetto di cittadinanza attiva potrà fare a meno di quell’educazione alla scienza e alla tecnica che, una buona volta, non si ridurrà alla considerazione della loro potenza concettuale e strumentale, ma ne comprenderà la pregnanza e la complessità culturali. Senza le quali si continuerà a navigare a vista verso il futuro, tra incerti avvistamenti e conclamati miraggi.

Quanto poi agli estensori del Cluetrain Manifesto, non si sono certo persi d’animo. Al contrario, Searls e Weinberger scrivono: “Abbiamo ancora la fede iniziale”… Ora consapevoli però del fatto che “l’utopia è morta, se non siamo noi a opporci”. Come a ribadire – usque nauseam – che ogni grande rivoluzione tecnologica è (anzitutto!) una radicale evoluzione culturale. Da studiare e da gestire, possibilmente insieme.