Articolo “a quattro mani” per un futuro diversamente abile

Articolo “a quattro mani” per un futuro diversamente abile

di Stefano Moriggi
Tecnologia, scienza e disabilità: dialogo con Gianluca Nicoletti

Di buone intenzioni è lastricata la strada che porta all’Inferno…
Così recita un antico adagio. Confesso di non nutrire alcuna simpatia per i motti e i proverbi, così come per tutte quelle dicerie che avrebbero contribuito a tramandare nel tempo una presunta saggezza popolare. Tuttavia, forzando forse l’interpretazione più diffusa, riconosco al sopracitato detto il merito di condensare in poche parole alcune mie convinzioni attorno all’idea di solidarietà.
Come dire… le buone intenzioni, per quanto apprezzate, non possono bastare. E non solo perché in molti casi sono (o diventano) l’alibi per coprire errori e misfatti: “eh, ma io l’ho fatto a fin di bene…”. Ma, soprattutto, per il fatto che un aiuto o un sostegno “incompetente” è solo un danno per chi lo riceve.

Quanto affermo in astratto trova un concreto e drammatico riscontro nel variegato mondo delle persone diversamente abili. Proprio dove limiti fisici e psichici richiederebbero assistenza e professionalità di alto livello; ancora troppo spesso – e quando va bene – ci si imbatte solo in comprensione e compassione. Due sentimenti nobili, per certi versi; ma che, quando non sostenuti dalle dovute competenze, si traducono nei fatti in un insopportabile accudimento pietistico, in un misto di accettazione e rassegnazione di fronte allo sfortunato destino di un “portatore d’handicap”. In sintesi, comprensione e compassione degenerano nella peggiore delle condanne per chi, invece, dovrebbe essere affiancato nella lenta e progressiva conquista di una vita degna fatta di motivazioni e autonomia.

So bene che esistono realtà d’eccellenza, ma ancora molto diffusa è l’inconsapevolezza – per non dire l’ignoranza – di chi non concede e non pretende per la disabilità l’eccellenza assoluta. Liquidare questo discorso con la mancanza di risorse economiche sarebbe quantomeno disonesto. Più responsabile, invece, sarebbe cercare di innescare una buona volta la miccia che possa accendere uno sguardo diverso sulla disabilità.
Un tema, questo, che più volte nella storia della nostra amicizia mi sono trovato ad affrontare – tanto in pubblico quanto in privato – con Gianluca Nicoletti, voce nota di Radio 24 oltre che firma del quotidiano La Stampa. E scienza e tecnologia sono sempre state lo sfondo culturale delle nostre riflessioni nel merito, non solo per via delle nostre passioni (e delle nostre professioni); ma anche perché entrambi siamo convinti che una diversa percezione sociale della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica possa contribuire su larga scala a diffondere un approccio più informato e consapevole ai bisogni e alle necessità dei soggetti diversamente abili.
Questo stesso articolo – anche dal punto di vista tecnico (oltre che contenutistico) – non fa eccezione: lo sto scrivendo nel mio studio di Milano su un documento condiviso con Gianluca che sta a Roma e a cui, con piacere cedo la parola…

GN – Confermo. Sono diversi anni che noi sperimentiamo le tecnologie come ripensamento degli spazi e dei tempi delle nostre vite, oltre che dello stesso concetto di cittadinanza. Abbiamo scritto anche un libro su questi temi. E certamente scienza e tecnologia possono e devono fornirci concetti e strumenti sia per migliorare la singola giornata e sia l’intera vita di un disabile. Ma non solo: possono e devono anche metterci a disposizione concetti e strumenti per demolire idoli e bufale che pericolosamente gravitano attorno al mondo dell’handicap.
Io ho un figlio autistico, Tommy. Tu lo conosci bene. Ecco, da un po’ di tempo a questa parte l’autismo è diventato di moda per l’uso improprio che se ne fa persino nel lessico radical disimpegnato. È singolare, per esempio, che proprio i tutori indefessi di ogni minoranza discriminata, di ogni correttezza lessicale, di ogni coscienza sociale inespressa alla fine si trovino concordi sul fatto che il termine “autistico” possa essere serenamente usato come ironico sinonimo di “povero scemo”, senza che nessuno per questo debba indignarsi. Purtroppo tra i tanti traguardi innegabili che abbiamo comunque raggiunto in direzione della nostra civilizzazione, la disabilità psichica non è ancora percepita come una realtà che tocca persone; ma è piuttosto un’ipotesi astratta, un tema per studi clinici, il riferimento a episodi tratti dalla letteratura, dal cinema, dalla fiction.

SM – Proprio a questo servirebbe un’educazione scientifica diffusa. Intendiamoci, non penso, ovviamente, che ogni cittadino debba maturare le conoscenze proprie di un ricercatore. Sarebbe una folle utopia. Tuttavia, una diversa considerazione sociale della scienza (e dei risultati ottenuti dalla comunità scientifica); e anche l’esercizio, a partire dai primi anni di scuola, di un approccio ai problemi “più scientifico” – ovvero più analitico e critico – aiuterebbero quantomeno a decostruire molti stupidi e pericolosi pregiudizi, oltre che a evitare le trappole pseudo-scientifiche di cialtroni senza scrupoli che speculano sulla sofferenza e sulla disperazione di malati e parenti. Stamina docet!

GN – Ecco, questo che tu sollevi è proprio il secondo livello di disagio che io ho avvertito quando mi sono reso conto che, a causa della leggerezza d’approccio generale, l’invisibile autistico diventa pure indicibile. Se non altro per definirlo sarebbe, infatti, necessario prendere atto di una letteratura scientifica, di una storia della sindrome e dell’urgenza con cui affrontare il disagio sociale che alla sua diffusione necessariamente consegue. Ma non vi è dubbio che per molti sia più facile e rassicurante affidarsi ai taumaturghi, ai santoni, ai teorici del profondo e persino ai lestofanti. Salvo poi pentirsi quando è troppo tardi…

SM – Il dramma è che viviamo precipitati in paradossi di ignoranza senza neppure rendercene conto. Per esempio, sempre parlando di autismo, si continua a dar credito – anche mediatico, ahimè! – a eziopatologie clamorosamente sconfessate dalla comunità scientifica internazionale (vedi la insensata campagna contro i vaccini), quando in Italia, per citare un dato, non esiste
nemmeno una mappatura degli autistici presenti sul territorio nazionale. Certo, la scienza ha i suoi tempi e comunicare la complessità e le difficoltà della ricerca a chi non la pratica quotidianamente non è facile. Ma è proprio su questo piano che – anche dal punto di vista della comunicazione e della divulgazione – si dovrebbe lavorare per tutelare il cittadino. Lo sai come la penso, dalla scuola ai media, per me l’educazione alla scienza costituisce un esercizio di educazione civica.

GN – A chi lo dici… Nella mia esperienza con Tommy ho visto di tutto: genitori che spendono fortune per portare il figlio autistico in Ucraina e sottoporlo a misteriosissime iniezioni di staminali all’addome. Altri per anni illusi che un “facilitatore” che tiene la mano sulla spalla del proprio figlio, incapace di scrivere il suo nome, gli consenta di compilare tesi di laurea e trattati complessi. Per non dire poi di quelli che si sottopongono ad anni di psicanalisi per rimuovere l’autismo del figlio, o che addirittura – e, credimi, non è uno scherzo! – lo portano dall’esorcista prima ancora di andare da un neuropsichiatra.
Il fatto è che, fino a quando regna la confusione, c’è lavoro per tutti. E ci sono soldi pubblici per chiunque. Operare secondo metodo richiede studio, aggiornamento continuo e competenza specifica. Lo ricordavi prima: di autistici si occupa per lo più personale non adeguato, ma d’altronde sembra impossibile fare leggi e farle applicare perché il denaro pubblico sia almeno speso in terapie efficaci o per lo meno non dannose.

SM – Sì certo, intendevo proprio sostenere che la solidarietà non coincide (necessariamente) con il volontariato e che, simmetricamente il volontariato non è ipso facto sinonimo di solidarietà. So che questa idea potrà irritare qualcuno, ma pazienza! Secondo me, il punto inaggirabile è la competenza. A partire dalla propria professione. In assenza di competenza, nella migliore delle ipotesi, rimangono appunto le buone intenzioni, una disponibilità vuota e inefficace che rischia di creare più problemi di quanti non ne risolva. E anche per questo molti genitori di ragazzi diversamente abili devono costruirsi ruoli e conoscenze che le istituzioni sono ben lontane dal garantire. Il tutto per cercare di assicurare ai propri figli non solo e non tanto un’assistenza “eccezionale”, ma anche quei i diritti fondamentali di un individuo che spesso, di fatto, vengono loro negati.

GN – È proprio così. Un’arrampicata sugli specchi. Io stesso ho fatto vari tentativi di creare qualcosa di concreto, ma poi trovavo sempre qualcuno che aveva fatto i miei stessi passi per poi arenarsi per tutti i motivi di cui sopra… Ora penso che, nei limiti delle mie possibilità, sarebbe già molto se riuscissi a creare le basi per una reale cultura della disabilità psichica – almeno nel trattamento quotidiano che ne fanno i media. Voglio essere ottimista e pensare che sia un obbiettivo raggiungibile. Dopo di che continuo a sognare e a combattere per la creazione di un centro pilota. Ovvero, di un polo sperimentale sull’autismo e di un laboratorio dove convergano tutte le possibili competenze necessarie. Io l’ho chiamato Insettopia (http://insettopia.it).

SM – Insettopia però non è solo un sogno; in qualche modo già esiste. Proprio attraverso la tecnologia – la rete in questo caso e i social network – tu hai cercato di richiamare e far interagire esperti di varia formazione, ciascuno dei quali in grado di portare un contributo attivo non solo alla costruzione (fisica) di uno “spazio” possibile per ragazzi autistici, ma anche alla diffusione di una diversa cultura della disabilità psichica. E i due livelli del tuo progetto, secondo me, non possono che procedere in parallelo. Sì comincerà a vedere qualche realistico e sensato passo avanti solo quando una certa mentalità comincerà a scricchiolare. Ma, come si dice, it’s a long way…
Anche se non mancano segnali di speranza, pensa – per fare solo un esempio – all’ottimo lavoro fatto da Federica Bertot e Martina Tamagnone, le due ventiquattreni neolaureate al Politecnico di Torino in Ecodesign e autrici di “Design for Autism”: un progetto complesso costruito attorno al “Il mio autista”. Si tratta di una app per smartphone che Federica e Martina hanno realizzato con l’idea di incrementare l’autonomia (anzitutto di movimento) dei ragazzi autistici, anche costruendo una rete di “persone amiche” che, sempre grazie all’applicazione, possono monitorare in tempo reale i loro ragazzi. Il tutto, in modo che la città possa diventare, nei limiti del possibile, uno spazio da vivere liberamente anche per loro. Anche perché, come hanno spiegato in una recente intervista (http://www.ideealcubo.com/finestre-sul-mondo/item/286-il-design-per-l-autismo): “gli autistici utilizzano molto la tecnologia sia nel privato che nel sociale. Ci sono app che permettono loro di esplicitare gli stati d’animo altrui, la tecnologia interviene come intermediario ed è un ausilio efficace perché a ogni input preciso corrisponde una risposta definita e ricorrente, mentre l’imprevisto li destabilizzerebbe”.

GN – È proprio così. L’autistico non ha “pregiudizi genetici” verso le tecnologie come spesso ha il neurotipico spaventato dal dover “cedere” la sua umanità. Anzi, proprio per la sua sindrome, l’autistico accetta molto più serenamente la mediazione con il mondo attraverso protesi emotive. Dalla “macchina degli abbracci” di Temple Gradin, ai tablet per la “comunicazione aumentativa”, alle tante app che continuamente vengono rilasciate per uso specifico degli autistici, è provato che l’uso delle tecnologie sia un ottimo espediente per abilitare l’autistico alla sua autonomia. Non a caso nel “decalogo” del mio progetto ho scritto: “Insettopia rappresenta un contenitore permanente per accogliere e lanciare startup di chiunque ci proponga un uso spropositato e folle di ogni supporto che la tecnologia potrà metterci a disposizione per rendere migliore la vita degli autistici.
A Insettopia cerchiamo, progettiamo, adattiamo e perfino forziamo la destinazione d’uso primaria di ogni oggetto elettronico, dispositivo informatico, applicazione, meccanismo o protesi emotiva che possa rendere più agevole la vita dei nostri ragazzi, come pure fornire loro occasioni concrete di sperimentazione per socialità, inserimento professionale, autonomia di vita.”

SM – Sai bene che su questo tema mi inviti a nozze. Ma lo spazio di questa mia rubrica su Logyn, è terminato. Ti ricordo però – e lo ricordo anche a chi ci legge – che il 15 ottobre alle 20.30 saremo tutti e due in quel di Pordenone, a Scienzartambiente, per la prima nazionale del tuo nuovo libro Alla fine ci inventeremo qualcosa. Che ne sarà di mio figlio quando non sarò più al suo fianco (Mondadori). Se ti va, ricominceremo proprio da dove qui ci siamo interrotti…

GN – Hai fatto bene a ricordarmelo, ora me lo segno… A presto, ciao!

SM – Ciao!