Apprendere è ricercare! Fine della didattica nozionistica…
di Stefano Moriggi
Nell’articolo pubblicato sullo scorso numero di Logyn (settembre, 2013), ho cercato di prospettare una logica di investimento funzionale a evitare sprechi di denaro pubblico (e/o privato) e inoltre in grado di consentire una transizione al digitale graduale e ragionata agli istituti scolastici intenzionati ad avviare una sperimentazione di classi 2.0. Poste, dunque, seppur per sommi capi, le condizioni materiali per riprogettare la scuola che verrà, tenterò questa volta di focalizzare l’attenzione sull’evoluzione metodologica necessaria affinché le nuove tecnologie possano integrarsi in un progetto didattico che non si riduca – come frequentemente accade – al tentativo disperato quanto vano di trovare una rassicurante quadratura del cerchio tra innovazione (informatica) e tradizione (pedagogica).
Per avviare una realistica comprensione e una analisi articolata degli stili di apprendimento aumentati dalle tecnologie occorre, infatti, uscire dal dualismo tra contenuti (nozioni,
concetti, valori, ecc.) e dispositivi (strumenti a disposizione del docente); e comprendere così, una volta per tutte, che un’aula infrastrutturata a dovere in cui la tipologia di lezione rimanesse quella cosiddetta trasmissiva (uno a molti) non rappresenterebbe in alcun modo un esempio di “classe 2.0”.
L’evoluzione delle macchine – occorre ribadirlo usque nauseam – non consiste in un progresso tecnologico assimilabile semplicemente con un aggiornamento informatico. Le interazioni con le nuove tecnologie inducono profondi cambiamenti nelle pratiche formative e nel lavoro che vede protagonisti alunni e insegnanti, tanto a scuola quanto a casa. E di tali evidenze empiriche e concettuali deve tener conto una pedagogia che voglia farsi carico della rilevanza del mutamento antropologico a cui stiamo assistendo oltre che, ancora più radicalmente, della complessità del rapporto tra soggetto e oggetto, tra individuo e strumento. Ma caliamoci senza indugio nel concreto della realtà scolastica: quali rivolgimenti dovrebbe produrre sul piano della didattica questa inedita relazione con le tecnologie che investe tutti gli ambiti della vita dei nativi digitali – dal gioco ai rapporti sociali, fino appunto alle modalità con cui si approcciano al sapere? Anzitutto, si tratterebbe di mandare in soffitta proprio quella lezione frontale cui si faceva cenno qualche riga sopra. L’insegnamento trasmissivo ed enciclopedico dovrebbe lasciare sempre più spazio a modelli di apprendimento in grado di “attivare” gli studenti, di stimolare la loro curiosità nelle forme tipiche e proprie della ricerca: imparare a far domande, formulare ipotesi, sottoporre le congetture proprie ed altrui a una rigorosa prova dei fatti, ecc. Il che, inevitabilmente, provocherebbe – per la prima volta a livello planetario – lo scardinamento degli schemi tradizionali costruiti e impostati sulla tecnologia-libro!
La ragione principale di tale svolta epocale è stata recentemente ribadita in modo piuttosto efficace da Michel Serres nel suo Non è un paese per vecchi (Bollati Boringhieri, Torino 2013), quando – condensando in poche righe il portato culturale di pratiche consolidate nei secoli, scrive: “Da molto tempo e fino a poco fa, insegnare consisteva in un’offerta. […] Ecco qua il sapere, stoccato nelle pagine dei libri: il portavoce parlava così, esibiva il sapere, lo leggeva, lo declamava; adesso ascoltate, leggete dopo, se vorrete. In ogni caso, fate silenzio”. E questo modello non funziona più. Perché?
Il sociologo francese non ha dubbi: “I ragazzi non leggono, né intendono ascoltare l’esposizione orale di ciò che è scritto. […] Ridotti al silenzio da tre millenni, i ragazzi producono in coro un rumore di fondo che sovrasta il megafono della scrittura”. E aggiunge: “Perché chiacchierano, nel vocio dei compagni chiacchieroni? Perché questo sapere annunciato ce l’hanno già tutti. Per intero. A disposizione. Sottomano. Accessibile tramite il Web, Wikipedia, il palmare con qualsiasi mezzo portatile. Spiegato, documentato, illustrato con una quota di errori analoga a quella delle migliori enciclopedie”. Ebbene sì, non c’è più bisogno di un “docente-sacerdote” che si erga a portavoce del sapere, ma piuttosto di un “compagno di ricerca” che abiliti i discenti alla pratica della ricerca, fornendo loro i mezzi della critica dell’analisi attraverso cui navigare consapevolmente nel mare magnum della rete. Ecco, quindi, che la pedagogia dell’insegnamento deve cedere il posto a quella dell’apprendimento; ecco, quindi, che lo studio non è più assorbimento di contenuti calati dall’alto, una successione di progressive scoperte e approfondimenti nell’orizzonte aumentato delle tecnologie – in cui i libri continueranno a “vivere”, ma non più come paradigma unico e costitutivo dell’esperienza formativa.
In passato, l’apprendere attraverso il fare e lo scoprire (learning by doing) era riservato a pochi contesti di élite; mentre, per ragioni economiche e strutturali, la scolarizzazione di base nei paesi occidentali si è svolta – come si è detto – secondo un modello trasmissivo ed enciclopedico. Oggi, invece, le tecnologie digitali garantiscono l’opportunità – se sostenute da adeguate politiche di welfare dell’apprendimento (diritti di cittadinanza digitale, accesso universale, ecc.) – di estendere all’intero sistema formativo dei paesi sviluppati (dalla Scuola Primaria all’Università) questo tipo di approccio. Per almeno tre ragioni:
1) le tecnologie digitali “naturalmente” inducono a un metodo
interattivo e sociale nell’accostarsi alla conoscenza (Point; Click
and Share);
2) gli alunni e gli studenti nativi digitali praticano
spontaneamente fuori da scuola questo tipo di comportamenti
attraverso social-network e strumenti di comunicazione
istantanea cui accedono attraverso notebook, consolle per video
giochi, smartphone;
3) i costi della infrastrutturazione tecnologica sono calati
vertiginosamente negli ultimi dieci anni.
L’insieme di questi fattori sta producendo un concreto ed evidente cambiamento nel setting didattico e nella stessa costituzione materiale della scuola (in Europa, tale cambiamento è già stato recepito e formalizzato negli Obiettivi di Lisbona per l’armonizzazione dei sistemi formativi – http://www.indire.it/db/docsrv//PDF/raccomandazione_europea.pdf; per quanto concerne invece lo stato di attuazione di tali obiettivi si veda invece: http://ec.europa.eu/education/policies/2010/doc/ progressreport06.pdf). Ma vediamo ora più dettaglio come potrebbe riformularsi una pratica didattica in un contesto digitalmente aumentato che tenesse conto delle logiche sottese alle nuove tecnologie e delle pratiche emergenti dalle relazioni che con esse intrattengono i nativi digitali. Delineerò di seguito, seppur in modo sintetico e
qualitativo le tre fasi in cui si articola il tempo-scuola secondo il modello formulato dal professor Paolo Ferri e da chi scrive.
a) Tool Box (cassetta degli attrezzi)
È l’avvio del processo didattico: si tratta di una attività, solo apparentemente vicina alla didattica frontale tradizionale. In realtà, l’insegnante si vedrà impegnato nel delineare i tratti concettuali essenziali alla comprensione dell’area tematica da affrontare, evidenziando – tanto sincronicamente quanto diacronicamente – le connessioni interdisciplinari e i nuclei problematici fondamentali (anche utilizzando i materiali digitali precedentemente carica negli ambienti virtuali di apprendimento – VLE/LCMS). Il tutto, facendo emergere le logiche di indagine e le metodologie di ricerca di volta in volta funzionali al contesto in questione. L’applicazione di un tale approccio didattico, già a questo primo livello, richiede: 1) una inevitabile selezione dei contenuti da proporre alla classe; 2) un approccio metodologico e critico all’indagine nei differenti campi del sapere.
b) Problem Solving Cooperativo
Questa fase rappresenta il momento centrale della nostra proposta. Gli studenti saranno organizzati dall’insegnante in piccoli gruppi e abilitati a lavorare all’interno di una classe virtuale (LCMS/VLE) con il notebook sia in classe sia a casa. Quindi, sulla base di una scelta di e-tivieties (attività cooperative on-line), analizzare ed eventualmente risolvere i problemi emersi durante la Tool box. In questa seconda fase, gli studenti agiranno appunto come piccoli ricercatori, sostituendo lo studio tipicamente concepito come sforzo mnemonico con un’indagine razionale modellata sulla logica della scoperta scientifica e implementata dagli strumenti di simulazione digitale dell’esperienza e/o di esplorazione e documentazione di fenomeni reali all’interno o all’esterno della scuola. Una tale metodologia possibile solo attraverso le funzioni di condivisione e oggettivazione della conoscenza consentite dagli strumenti di rappresentazione digitale dei saperi.
c) Situation Room
L’insegnante, in questa terza fase, consulterà i suoi “esperti” e “ricercatori” di fiducia (ovvero, gli studenti) per chiedere loro ragione delle metodologie e dei risultati ottenuti, favorendo dunque, attraverso un ulteriore confronto, una metariflessione mediante la quale i gruppi di lavoro possano accrescere, rivedere razionalmente e sedimentare maggiormente le (migliori) evidenze o soluzioni conseguite nella fase del Problem Solving Cooperativo. In questa terza fase, l’insegnante stabilisce, quindi, un momento di discussione/valutazione che condivide e approfondisce i risultati del lavoro dei singoli team di ricerca, anche attraverso l’utilizzo delle fonti disponibili su Internet come elemento di critica e controllo delle congetture altrui. È la fase più dialettica del processo didattico, quella in cui i risultati ottenuti dai singoli gruppi si rendono “pubblici” – proprio come avviene nel dibattito interno alla comunità scientifica. Si tratta, in sintesi, del momento della valutazione cooperativa “di processo”, cui faranno seguito le “valutazioni sommative individuali”. In questo modo – al di là dell’acquisizione di competenze tematiche e contenutistiche – gli studenti acquisiscono nel tempo la consuetudine 1) al lavoro di gruppo; 2) all’onestà intellettuale di sottoporre al controllo pubblico le proprie idee e congetture sul mondo e sui saperi; 3) a chiedere conto delle ragioni altrui, esercitando come un diritto/dovere il pensiero critico nell’interesse proprio e del gruppo. Questo processo di confronto pubblico e di revisione razionale dei risultati è di fatto reso possibile dall’opportunità di lavorare simultaneamente all’interno di una classe reale e di un ambiente virtuale per l’apprendimento (LCMS/VLE). Un tale ambiente, pensato per la gestione condivisa della conoscenza (Knowledge Management) e per il supporto alla conduzione del processo didattico, rende infatti praticabile una serie di operazioni irrealizzabili nei modi sopra indicati all’interno di un contesto gutemberghiano.
Questo tipo di setting didattico mette dunque in evidenza una grande opportunità di “ritorno al futuro” per i sistemi scolastici e formativi – permette, cioè, attraverso le tecnologie digitali dell’apprendimento, di concretizzare su larga scala la “buona utopia” del learning by doing di John Dewey, rivisto alla luce di un approccio logico-metodologico incentrato sulle logiche della scoperta scientifica. Stiamo sperimentando questo modello in percorsi formativi che coinvolgono docenti provenienti da istituti di ogni ordine e grado sul territorio nazionale. I risultati attuali sono incoraggianti e convergono con i dati emersi da analoghe esperienze condotte nel nord Europa e negli Stati Uniti. Ci sarà modo di aggiornare (anche in questa sede) gli esiti delle sperimentazioni in corso; tuttavia una cosa è già evidente: senza un ripensamento del sistema scolastico italiano (incluso quello universitario) sarà sempre difficile per le prossime generazioni riuscire a competere – anche sul fronte occupazionale – con quei loro coetanei stranieri allenati fin da piccoli a pensare – come diceva Sir Karl Popper – che “tutta la vita è risolvere problemi”…